mercoledì 18 aprile 2018

LA VIGNICELLA DEI GESUITI


di Rosario Daidone
Secondo quanto scrive Nino Basile nella sua “Palermo Felicissima” (1929, pag. 140) i Gesuiti avevano acquistato la VIGNICELLA nel 1560 e a poco a poco ingrandirono questo possedimento sino a formarne una vasta residenza adibita a luogo di villeggiatura. 
Insediatisi a Palermo nel 1550, non avevano ancora iniziato la costruzione della Casa Professa (1564), ma la loro presenza era già forte e incisiva, soprattutto nell’ambito dell’istruzione superiore che divenne il loro compito precipuo. Tra il 1550 e il 1560 l’ordine raggiunse in tutta la Sicilia la sua massima espansione. Un potere culturale ed economico conseguito attraverso l’acquisto di numerosi feudi che si prolunga fino al 1767 quando Carlo III di Borbone decide espulsione dal regno della Compagnia e nel 1773 il papa Clemente XIV ne sancisce la soppressione. 
Nel portico dell’antico edificio della Vignicella, a sinistra di chi entra direttamente dall’esterno attraverso le due scale a forbice si trova una parete ricoperta da un enorme pannello maiolicato sovrastato da un affresco che rappresenta il pergolato di una vigna, da cui il sito prende nome, su cui campeggia la figura di un pavone con le penne spiegate, simbolo del Cristo trionfante. Più in basso, sopra il vano che secondo il Basile accoglieva una fontana, un’altra porzione affrescata rappresenta un angelico concertino. Un esile cartiglio ben delineato dall’autore della maiolica, che originariamente accoglieva l’impresa del committente, è interessato da un altro piccolo affresco con l’immagine consueta di Santa Rosalia. 
Il nastro, che si snoda in eleganti ondulazioni a coronamento del pannello maiolicato, reca un epitaffio che invita i suonatori ad esibirsi in concerti e musiche soavi adatte a non turbare gli animi e a non distrarre il pensiero degli astanti immersi nel raccoglimento. La rigorosa considerazione che ben più grave di ogni altra perdita è la divagazione e il distoglimento della mente dal pensiero divino conclude l’iniziale accorata sollecitazione: ” Deh per pietate formate il suon suave che non si desti l’alma a Dio diletta che sovra ogni altro duol miseria grave”.Alcune parole della scritta (L’alma a Dio diletta), mancando le tessere smaltate originali, sono state riprese in pittura a tempera direttamente sull’intonaco. 
L’invito alla levità musicale scritto sui mattoni lascia pensare che al posto dell’affresco col concerto da camera tenuto dagli angeli doveva trovarsi un tema simile dipinto dal maiolicaro. L’ambiente di destinazione dell’opera sembra dunque essere sempre stato quello ecclesiastico e religioso, un luogo di comune meditazione di cui conventi e monasteri sono forniti. L’dea di un ruscello che in maniera fittizia confluisse e defluisse da una vera e propria fontana non più esistente, potrebbe allontanare l’ipotesi di una committenza laica dell’opera smentita dal carattere simbolico della rappresentazione paesaggistica. Basterebbe soltanto una ordinazione diversa da quella gesuitica a giustificare la rimozione dell’emblema dal cartiglio.
Il pannello ha subito nel tempo varie manomissioni. Le aree affrescate, compresa la più ampia sotto il soffitto a volta con la rappresentazione del pergolato, si configurano come evidenti sostituzioni di porzioni maiolicate cadute o piuttosto mai arrivate in situ. Se appare comprensibile, dopo l’acquisizione dei Gesuiti, la cancellazione dello stemma sostituito con il piccolo affresco di Santa Rosalia, meno chiari si rivelano i motivi che causarono la manomissione delle altre porzioni maiolicate e in particolare quella sostituita dall’ affresco degli angeli musicanti.
Sembra comunque poco probabile che il pannello sia stato ordinato per essere destinato alla misura e alla forma della parete in cui si trova. Il senso stesso della scritta che invita a non turbare il silenzio della meditazione mal si adatta ad un luogo aperto, che seppure destinato ai religiosi, è immediatamente accessibile dalle scale esterne ed esposto ai rumori provenienti dalla strada. A conforto di un trasferimento di sede avvenuto nel passato, probabilmente a non molta distanza di tempo dalla sua originale collocazione, come lascia pensare l’integrazione puntuale della scritta, si possono allegare i numerosi errori di messa in opera, soprattutto per quanto riguarda la parte destra del manufatto. Qui, oltre alla presenza di porzioni disarticolate di animali sparse per la campagna, le mattonelle che rappresentano un alto cipresso occupano il posto in cui dovevano essere collocate le tessere che completano il disegno della montagna innevata che sovrasta il gruppo di case costituito da massicci edifici a torre, castelli e costruzioni dallo strano tetto orientaleggiante a forma di cono. L’ambiente in cui, tra gli alti cipressi pascolano due cervi ben delineati (uno vistosamente fuori posto) è attraversato da un corso d’acqua di cui restano soltanto due anse ricche di pesci interrotte dal vano murato, che secondo il Basile ospitava la fontana.
In diverse parti le mattonelle mancanti sono sostituite da intonaco. Un’ampia mancanza sulla parte sinistra di chi osserva, poiché non esiste nella riproduzione fotografica pubblicata dal Basile, deve considerarsi di non antica formazione come pure, rispetto alla stessa foto del 1929, la dilatazione della lacuna sulla parte destra in basso del rivestimento maiolicato.
Nonostante l’esaltazione artistica che ne fece l’autore della “Palermo Felicissima”, il manufatto, mai caduto sotto l’interesse degli studiosi della materia, considerato dal Basile come opera di fabbricazione locale, ad un attento esame rivela piuttosto caratteristiche formali forestiere che non escludono la provenienza campana e in particolare le fabbriche vietresi che numerose maioliche esportarono in Sicilia nella seconda metà del ‘500. All’Italia peninsulare conducono infatti i colori adoperati dal decoratore e la maniera della rappresentazione che non ricade nell’esperienza iconografica isolana.
Per quanto riguarda il periodo di fabbricazione un’ attribuzione alla seconda metà del ‘500 ben si adatta allo stile dell’opera e alla cultura allegorica sottesa nell’insieme. La misura piccola delle tessere (cm. X cm. ), scelta tecnicamente consigliata alle destinazioni parietali, è tipica del periodo. 
Più chiari riferimenti si potrebbero cogliere da una visita meno frettolosa al monumento e dall’esame più attento dell’argilla e dello smalto o almeno dall’analisi del verso di qualche mattonella caduta che generalmente conducono alla determinazione delle fornaci. 

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