mercoledì 18 aprile 2018

ARCHITETTI E MATTONARI PALERMITANI


I PAVIMENTI ISTORIATI DEL ‘700


di Rosario Daidone

In gran parte perduti i rivestimenti di maiolica che adornavano gli edifici siciliani, l’arte della decorazione pavimentale del ‘700, piuttosto che ai reperti - pochi e frammentari – si affida alle forniture e alle preziose descrizioni rintracciate nei documenti d’archivio. 
La notorietà raggiunta a Palermo dalla famiglia Sarzana (o Zarzana) - Carlo, Nicola, il genero Andrea Gurrello e Carlo junior - poggia sull’allestimento di una lunga serie di pavimenti destinati agli edifici pubblici, ai palazzi nobiliari e alle ville barocche che - smanie della villeggiatura di patrizi e cavalieri e financo dei conventi femminili della città - a gara si costruirono appena fuori le mura nel corso del XVIII secolo.
A Carlo, la cui attività è ancora poco nota, si potrebbe attribuire il singolare intervento eseguito nella cripta delle Repentiteda poco casulamente venuta alla luce. In essa i Santi Francesco e Chiara, effigiati a grandezza naturale ai piedi della croce in un mosaico di mattoni di diverse misure, sovrastano il piccolo altare dell’ultimo quarto del XVII secolo adornato di figurazioni vegetali che solo in parte riescono ad attenuare la drammaticità dell’andito buio fornito degli essiccatoi per i cadaveri delle prostitute convertite. Le croci che affiancano l’altare, inusitatamente formate da bipartite mattonelle da pavimento, tradiscono la precarietà dell’insieme e la riutilizzazione, anche nell’impiantito, di elementi modulari destinati ad altri edifici. Segue di almeno un decennio il lavoro nell’oratorio di Santa Cita consegnato dal mattonaro nel 17021. Qui il tappeto maiolicato mancante di una parte, seppure nelle condizioni di degrado causato dall’uso, rivela la fantasia e il gusto dell’autore. Costituito da piastrelle di cm. 17,5 di lato che a gruppi di quattro formano serti di fiori di fantasia, esso si estendeva con ampia bordura dal terrazzo, dove arriva la scala in pietra di Billiemi di accesso all’edificio, fino al locale interno dell’antoratorio e alla cappella del Crocifisso. Ideale raccordo con gli alberi e i fiori del giardino interno sottostante, le ornamentazioni suggeriscono sensazioni di colorata frescura che predispongono al godimento dei candidi stucchi del Serpotta (1685-88) nella chiesa coerentemente fornita di un intarsiato pavimento marmoreo di Gioacchino Vitagliano (1699). Scevra di riferimenti iconografici e studiate simbologie, l’opera assume il ruolo esclusivo di un festoso apparato ornamentale, tipico dei pavimenti palermitani tradizionali, adatto a qualsiasi destinazione ambientale. La decorazione si giova della velocità esecutiva del disegnatore e della padronanza dei moduli trattati. Reso vivace dalle pennellate gialle sul verde più o meno intenso del carnoso fogliame, il disegno in bruno di manganese rimarca i particolari dopo la stesura dei colori come in genere si nota nelle opere pittoriche all’acquarello.
Allo stesso maestro dovrebbero ricondurre anche gli interventi negli oratori di S. Mercurio (1715) e dei Pellegrini (1719) dai quali non può essere però esclusa la mano di altri operatori che nella prima metà del secolo incoraggiavano la moda e sostenevano la richiesta pressante dei mattoni dipinti: decoratori più o meno noti come Gabriele Pavone, Giuseppe e Antonio Gurrello o Giorgio Milone che nel 1715 firmava i pannelli con santi del campanile della Chiesa Madre di Carini. 
L’opera di Santa Cita non raggiunge la struttura unitaria che, intorno alla metà del secolo, conosceranno le illustrazioni più impegnative del figlio Nicola (nato nel 1701)il quale non sembra però discostarsi dal gusto paterno nelle prime realizzazioni autonome. Fitomorfiche tessiture barocche simili a quelle di Santa Cita si trovano infatti nel battistero della SS. Annunziata di Caccamo, reliquato del pavimentoche adornava interamente la Chiesa, allestitonel 1755 da Nicola destinatario di calorose attenzioni e singolari donativi riservatigli in occasione del suo viaggio nella cittadina per curarne la messa in opera *. 
Uno dei primi lavori eseguiti da Nicola sotto le direttive di un architetto è quello che nel 1747 vide impegnato l’ingegnieroGiovan Battista Cascione nella fornitura dei disegni per i rivestimenti pavimentali di Casa Guzzardi nella piazza Bologna. La formazione specifica del mattonaro, maturata nel laboratorio paterno estraneo alla lavorazione dell’argilla, trova testimonianza nell’acquisto presso gli stazzoni della città del cotto da dipingere. La smaltatura come lavoro specialistico si affermava perentoriamente nel ‘700 a garanzia di migliori risultati artistici. 
I mattoni metà bianchi e metà dipinti a fioroni color turchino, destinati nel 1751 alla Chiesa del Collegio di Maria di Torretta, conquistavano anche la provincia alla nuova moda. La fama raggiunta in tutta l’Isola dal Sarzana, operatore nelle arti liberali che poteva fregiarsi del titolo di don, è testimoniata dall’ordinativo di alcuni pavimenti historiatirichiesti nel ‘52 dall’Arcivescovo di Messina con l’intermediazione di un illuminato intenditore qual era il principe di Torremuzza Francesco Paternò Castelli. 
Vivente ancora il padre, l’impresa familiare acquistava autonomia sul mercato attraverso l’acquisizione diretta dell’argilla che Nicola affidava a un socio stazzonaro per la prima lavorazione. Materia da cavare, come di consueto, nei terreni ai margini del fiume Oreto, ricca di ossidi ferrosi e d’intrusi che aiutano la ricognizione e lo studio dei reperti. 
L’esecuzione di un bucolico impiantito, disegnato nel ’52 dall’architetto Francesco Ferrigno per l’appartamento di un’aristocratica badessa della famiglia Filangeri nel distrutto Monastero dei Sette Angeli, afiorami, uccellini e paesaggio, indica il transito agli scenari paesaggitici che, ampi e articolati, culmineranno nel pavimento dell’oratorio dei Bianchi e in quello - ricco di simboliche vedute - della Chiesa di San Benedetto di Caccamo, ancora privo di documenti archivistici, ma di sicura attribuzione sarzaniana. La nave allegorica che è dipinta al centro della navata riesce a superare i marosi come afferma la scritta che l’accompagna, Concutitur non obruitur,riferita ai travagli della vita, ma non alla perdizione .
Dopo la scomparsa di Carlo, sostituito dal pittore Emanuele Gulotta ingaggiato nel 1753, si rende ancor più evidente l’intervento degli architetti. L’ingegniere Rosario L’Avvocata, attraverso un impegno notarile in cui per la prima volta appare il nome del figlio di Nicola (di nome Carlo come il nonno), curava per il barone Armao di Santo Stefano di Camastra la realizzazione di un pavimento “a onda di mare” che accogliesse un paesaggio centrale. Già in uso nel pieno ‘600, questa tipologia modulare, formata da mattoni che una diagonale distingue nella doppia colorazione bianca e verde o bianca e blu, interessava non soltano le abitazioni private, ma anche i luoghi sacri, come la chiesa palermitana di Porto Salvo, disposti a rinunciare all’uso tradizionale del marmo o a sostituirlo con i rivestimenti di maiolica più accessibili e non meno appariscenti dei “mischi”. 
A rendere evidente il potere esercitato dai Sarzana sul mercato interviene la notizia relativa ad una società di stazzonariche, assumendo nel ’54 il pittore Antonio Celestri, si vedevano ostacolata da don Nicola l’apertura di una “vetrina” nella via dello Stazzonerichiesta al Senato permantenerci le mostre dei loro prodotti ad utilità del pubblico degli acquirenti. Non si configura come fatto occasionale che uno degli architetti più in voga, Giovan Battista Cascione2, si rivolgesse proprio ai Sarzana per corredare di pavimenti dipinti il palazzo dei Marchesi Santacroce, uno dei più grandiosi della città, in costruzione nella via Maqueda. L’enorme quantità delle maioliche richieste dal cantiere convinceva il direttore dei lavori di rivolgersi nel 1758 anche alle fabbriche napoletane in grado di sfornare mattoni di dimensioni più grandi rispetto a quelle praticate nell’Isola. Un incentivo per Nicola a provarsi nella più impegnativa “misura di Napoli” (cm. 20X20 ca.) che gli consentiva di operare contemporaneamente per conventi e palazzi baronali. La realizzazione, insieme al genero Gurrello e in società col vecchio maestro Milone, del progetto dell’architetto Salvatore Attinelli per la Chiesa di Sant’Angelo dei Linari (1759), l’esecuzione di altri estesi impiantiti della casa Gravina, per il palazzo di Alia dei marchesi Santacroce e per il Convento di San Francesco di Paola ispirati, questi ultimi, alle pitture del soffitto di Vito D’anna, documentano il successo e l’incremento delle richieste che si estendevano anche a lontani committenti come la Chiesa di San Giuliano di Petralia Sottana dove, come era d’uso, don Nicola si recava di persona nel ’60 per sorvegliare la collocazione di un complesso pavimentale ideato dall’architetto Inguaggiato. 
Realizzate in quest’anno le opere per il refettorio di Santa Chiara e il parlatorio del monastero delle suore benedettine di S. Rosalia, che si trovava nel quartiere dei figuli dello Stazzone, i Sarzana, oltre a lavorare ancora per l’enorme palazzo di Via Maqueda recentemente restaurato, affidavano alla fornace migliaia di mattoni destinati alla riedificazione di abitazioni private che sarebbe lungo elencare. Né dovette più costituire motivo di eccessiva preoccupazione la presenza in città dei maestri napoletani come gli Attanasio decisi a propagandare e a vendere direttamente in Sicilia le loro riggiole. Delle fabbriche partenopee si servirono tuttavia diversi architetti palermitani del periodo: nel Palazzo Santacroce il pavimento dellagalleriafu infatti allestito nel 1761 da Nicola Giustiniano; palazzo Ganci mantiene ancora intatto il pavimento napoletano della sala degli specchiin cui Luchino Visconti girò le scene del ballo del Gattopardo; di Andrea Gigante si conservano nella Galleria Regionale della Sicilia i progetti per i pavimenti di villa Camastra del principe di Trabia realizzati a Napoli. 
Nel ’63 una digressione che attesta la perizia di don Nicola nella manipolazione degli smalti è costituita dall’allestimento di enormi vasi di una particolare tonalità di turchino destinati alla flora della casena di Malaspina che egli si impegnava di fornire, benvisti dall’architetto Cascione, in società con l’esordiente maestro Calogero Pecora divenuto in seguito direttore della fabbrica di vasellame che il duca Francesco Oneto aveva annesso alla sua villa3
Un pavimento istoriato rivestiva la sala dell’Oratorio dei Bianchi riservata alle riunioni dei confrati della buona morte ancora priva delle decorazioni parietali del pittore Gaspare Fumagalli (1777). Per l’ambiente, vasto cento metri quadrati, i duemila e duecento mattoni occorrenti, della misura napoletana dionce dieci di quadrovoluta dall’architetto Fama Bussi, furono ordinati a Nicola Sarzana nel 1765 dal Principe di Torremuzza, deputato della Reale Compagnia, particolare estimatore delle maioliche4. Dal momento che non si conoscono né le figurazioni del manufatto né l’impegno artistico riversatovi, la sua perdita non appare tanto grave quanto quella dell’opera maiolicata dell’oratorio vero e proprio di cui resta una riproduzione fotografica in bianco e nero nell’archivio della Publifotoe alcune descrizioni che l’accreditano come una delle più interessanti realizzazioni del Settecento. Il tappeto, di cui sopravvivono la bordura e poche mattonelle originali che si perdono dopo il restauro dell’edificio in un mare di cotto moderno, si articolava in tre distinti registri concentrici che mettevano in risalto l’historia di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto. A giudicare dalla testimonianza fotografica, la narrazione veterotestamentaria era molto più ricca e articolata di quella che con lo stesso soggetto Giuseppe Testa dipingerà sulle pareti nel 1794 allegandola alle scene insistenti sul tema della morte violenta culminanti nell’affresco della Decollazione del Battista di Antonino Mercurio. 
La centralità e l’enfasi assegnata al fatto biblico, al di là di ogni interpretazione ricercata, sembra sottolineare la particolare importanza che i committenti riservavano alla miracolosa invenzione dell’acqua. Evidente appare l’ufficio della redenzione dei reprobi che la Compagnia dei Bianchi, secondo pratiche e ricette consolidate, rendeva disposti a ben morire per volere e mandato delle autorità civili e religiose. Per il resto è difficile dire se il concerto degli ornati era adatto a suscitare nell’animo dei potenti confrati sentimenti di paradisiache anticipazioni o provocare nei poveri condannati dolorose sensazioni della perdita del mondo terreno. Di fatto le incoraggianti verzure e l’intensa luminosità del pavimento erano inno alla bellezza ed elogio della vita onestamente vissuta. Da qui, più che dalle scene parietali, la Compagnia attingeva convinzioni e conforto per l’alto e remunerato compito di riconciliare gli abietti con l’Eterno.
L’opera ancora intatta fu visitata con l’editore Sellerio da Antonino Ragona nel 1975 che l’attribuì coerentemente al maestro Nicola. Nella sua originale condizione poterono ammirarla anche altri esegeti che, ignorando gli interventi nell’edificio del Fama Bussi (documentati dal 1753 al 1766) e la presenza dei Sarzana nella sala Fumagalli, finirono con l’assegnarne il progetto all’architetto Emanuele Cardona e l’esecuzione a fabbriche napoletane di fine Settecento5
Le caratteristiche del cotto, le scelte decorative operate e i raffronti con i manufatti partenopei confermano l’attribuzione del lavoro ai Sarzana che dovettero impegnarvisi alcuni anni prima dell’intervento compiuto nella sala degliaggiontamenti. La determinazione cronologica dell’apparato è incoraggiata dalle dimensioni delle tessere residue, quadrittonidi 17,5 centimetri di lato, fabbricate nel periodo in cui non si era ancora affermato in Sicilia il sesto più grande che caratterizzava il pavimento precedente. 
Che i mattoni dei Bianchi, come quelli degli altri pavimenti smembrati, potessero essere oggetto di un avventato collezionismo non era sfuggito ai saccheggiatori. Eppure, “i bandi a tutela e salvaguardia dei beni culturali nel Mezzogiorno risalgono ai “retrivi” Borboni a partire dal 1755 e trovano solenne riaffermazione nell’articolo 9 della Costituzione”.6
E’ riferibile a Nicola Sarzana, che partecipava nel 1766 alla formazione degli statuti degli stazzonari, l’annotazione dell’architetto Giovanni Del Frago durante i lavori eseguiti nel palazzo del mercante genovese Ambrogio Gazzino sul Cassaro (1768), spese per aver fatto il disegno in grande del mattonato di camerone con spese di cartone e pittore7. Essa costituisce una prova esplicita della consolidata collaborazione artistica tra decoratori e architetti che si incaricavano di affidare ai mattonari, liberi di definire variazioni e dettagli, lo sviluppo dei progetti e di accettare o rifiutare l’opera finita8.
Nel ’72, in società con un produttore di cotto, i 4000 mattoni “a onda di mare” che l’architetto Francesco Di Miceli richiedeva ai Sarzana per i corridoi e i balconi del palazzo Mannino indicano la funzione di passe par toutassegnata all’elegante decorazione modulare, elemento funzionale persino nel prospetto laterale della Cattedrale di Palermo e rivestimento di corridoi e logge di numerosi palazzi e ville suburbane. 
Le ultime notizie sull’attività dei Sarzana sono contenute negli atti notarili del 1773 che vedono Nicola impegnato nella riscossione di alcune somme dovutegli per lavori pregressi. Dopo la scomparsa del genero Gurrello e del figlio Carlo, il vecchio mattonaro, non più in grado di lavorare a partire dal 1775, ormai vedovo e in condizioni economiche di assoluta necessità, abitava in una modesta casa d’affitto fino al giorno della morte sopravvenuta il 20 dicembre del 17869.
Cessata l’attività della bottega, si attrezzavano a soddisfare le declinanti commissioni i vecchi concorrenti. Il documento della fornitura di Angelo Gurrello - fratello dello scomparso Andrea - alla marchesa di Santa Croce: mattoni stagnati bianchi a tarì 10 il centinaio euna festina di valenza per la cappella della casena di Bellolampo a tarì 11, appare di non poca importanza. Il prezzo deiquadrittoni rossi (di semplice terracotta) stabilitoa tarì 3 e grani 10 il centinaio,offre infatti la possibilità di determinare il valore commerciale assegnato in questo periodo alla smaltatura e alla decorazione pittorica. 
I pavimenti bianchi fabbricati nel 1777 per la Marchesa, sorella del Duca di Sperlinga, come quelli destinati nel 1780 alla casa del principe d'Aragona, sembrano decretare la crisi degli istoriati e la riconquista del mercato da parte degli stazzonicon i loro rutilanti mattoni “ad attacco” destinati a nuovi gusti e alle più economiche pretese dei 1500 baroni, dei 142 principi e dei 178 marchesi che alla fine del secolo affollavano l’Isola. 

note
1) ASDP, vol. 6, c. 50, 26 ottobre 1702 
Agli atti del not. Cristoforo Cavarretta esiste apoca di once 27, tarì 14 e grani 16 a Mastro Carlo Zarzana per attratto e magisterio ut dicitur per detto contraente avere fatto l’ammadonato nell’antoratorio di detta Ve.le Compagnia e sono per infrascritta lista del seguente tenore: 
in primis once 21 d’ammadonato di valenza a quadretti pagati per mano di Giovanni Antonio Lugaro a ragione di once 1 e tt. 6 la canna; 
per portatura di madoni tt. 18; 
per mattoni restati seu rigirati del primo disegno once 1 tt. 8; 
per giornati 7 di mastro muratore once 1 e tt. 25; 
per giornati 7 di manovale tt. 25 e g. 20; 
per giornati 7 del picciotto tt. 15; 
per calcina, rina e gisso once 1 tt. 25. g. 6. 
In tutto once 27.14.16). Governatore della Compagnia era Giovanni Caradonna e i consiglieri Giacomo Piscetti e Gaspare Benfatta.
2) La proposta di S. Caronia Roberti (L’architettura del Barocco) dell’architetto Giganti come autore dei disegni, già messa in dubbio da A. Blunt ( Barocco siciliano, 1986), appare definitivamente superata dall’invenzione dei numerosi documenti d’archivio in nostro possesso che assegnano i disegni e la direzione dei lavori all’architetto G.B. Cascione 
3) Cfr. R. Daidone, La Ceramica Siciliana, Palermo 2005
4) ASP, Not. Sarcì Domenico Gaspare, Vol. 10236, f. 634, 20 aprile 1765
5) M. C. Ruggeri Tricoli, L’architettura degli oratori, Palermo 1995
6) S. Settis, Il Bello dei Borboni, in “Il Sole-24 Ore”, 19 gennaio 2003.
7) Il documento relativo mi è stato fornito dall’Arch. Natale Finocchio al quale rinnovo i ringraziamenti per la preziosa segnalazione
8) Dalla storia della maiolica palermitana non sembrano emergere notizie di collaborazione più esplicite di questa, anche se l’intervento dell’architetto non pare debba essere escluso nel pavimento e nella spalliera che i Lazzaro prepararono nel 1591 per il palazzo senatoriale.
9) Atti dell’Archivio parrocchiale di S.Giovanni de' Tartari, vol. def. anno 1785-1786, atto n° 127, f. 9 v. Anno Domini 1786 ind. V die vigesima decembris Don Nicolaus Zarzana (sic)sponsus quondam D. Rosae aetatis annorum octuagintaquinque repentina morte correptus omnibus Sacramentis corroboratus hodie obiit. Eius corpus de licentia llustrissimi et reverendissimi Episcopi Vicarji Generali de Vanni in sella gestatoria depurtatum sepultum fuit in Ecclesia conventus S. Mariae Angelorum, ut dicitur alla Gancia.

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