per meccanica d’ingegno e con penna
di Rosario Daidone
La lunga e appassionante ricerca sulle imprese palermitane interessate alla fabbricazione di maioliche e terraglie decorate a “terzo fuoco” si arricchisce d’inattesi apporti documentali capaci di fornire nuove puntualizzazioni e correlazioni storiche tali da alimentare una conoscenza più allargata della situazione culturale e manifatturiera che caratterizza il capoluogo siciliano nella seconda metà del XVIII secolo. La recente acquisizione di atti relativi ad una delle fabbriche prese in considerazione nella Mostra palermitana del 1997(1), quella fondata da Francesco Oneto e Morreale duca di Sperlinga, si configura come una circostanza che merita attenzione, se non altro per la singolarità di un evento che appare piuttosto raro nella storia della maiolica italiana.
Sfuggiti persino a Luigi Maiorca Mortillaro(2), erede della famiglia Oneto, che nel 1905 fornì le prime notizie intorno all’iniziativa dell’antenato, i documenti sono costituiti da un discreto numero di progetti e disegni relativi alle opere che il vasaio Calogero Pecora, direttore dell’atelier, andava preparando e in parte realizzava nel periodo che va dal 1762 al 1780 per il suo illustre mecenate.
L’individuazione della cartella, rimasta a lungo confusa tra le pile di innumerevoli carte notarili, la corrispondenza, le mille cedole della famiglia Oneto, accumulatesi per almeno due secoli nel palazzo residenziale della via Bandiera, costituisce di per sé un evento di notevole valore documentario. Ma ancor più straordinario si configura il rinvenimento quando si considera che quasi tutte le elaborazioni grafiche trovano perfetta corrispondenza in diverse opere pervenute, in gran parte custodite nella Galleria Regionale della Sicilia.
Bisogna rendere merito alla intuizione del dottor Gabriele Arezzo di Trifiletti che, esperto e appassionato collezionista, ha acquisito il materiale cartaceo dell’aristocratica famiglia. Aver sottoposto il prezioso incartamento all’attenzione di chi come me si era interessato alla ricognizione storica e all’esegèsi delle testimonianze materiali, è stato un apprezzato atto di gentilezza e disponibilità. L’occasione resta impressa nella memoria come un’esperienza esaltante per chi, conoscendo i reperti, ne vede per primo gli abbozzi, gli schizzi, l’iniziale sforzo creativo; ne può valutare le incertezze, i pentimenti, gli aggiustamenti, le varianti, le cancellature registrate dalle opere finite. Disegni vivi, senza ordine di scala, idee annotate nel tempo, ventri, anse, scozie, piedi, festoni e colli di vasi, strutture rococò e neoclassiche tratte dalle diverse esperienze dell’autore, mutuate dalle forme degli argentieri, dalle sinopie dei frescanti e dalle fogge degli stuccatori che gomito a gomito lavoravano nella “flora” e nei locali della villa che rinasceva da un vecchio rudere, in un’ampia tenuta di antica proprietà appena fuori le mura, come dimora estiva della famiglia di uno dei più illuminati aristocratici isolani.
La carta che sembra essere la più vecchia, a giudicare dall’invocazione proemiale a Gesù Maria e Giuseppe, contiene lo studio delle iniziali del duca da tracciare sui serviti della sua dispensa e le possibili abbreviazioni. L’approdo alla sigla definitiva si trova dorata in una fruttiera dall’orlo ad archetti distinto da un nastro a riserve, in un piatto e in un coprivivande dello stesso corredo, custoditi nella Galleria Regionale palermitana (fig. n° 1 ).
Il progetto di una zuppiera con decoro alla rosa, rara presenza nell’insieme vegetale delle ornamentazioni praticate, impreziosita dalle modanature a rilievo, con un’enfatica presa a frutto, associato ai disegni del vassoio e del “cocchiarellino di terraglia”, prende corpo materiale, bagliori di smalti e vaghezza di colori nell’opera presente in una collezione cittadina (fig. n° 2 ).
Un’altra zuppiera (3)di forma ovale meno sobria della precedente, con anse aggettanti e rilievi, con decorazioni e stemma nobiliare genericamente rappresentato da un fiore, si trova felicemente realizzata con alcune calligrafiche varianti pittoriche e l’impresa della famiglia….. nell’esemplare custodito nello stesso Museo di Palazzo Abatellis (fig. n° 3 ).
Il progetto di un vaso a ventre alto delimitato da due profondi solchi, ancora privo di pittura, con anse di notevole sporgenza, coperchio a cupola sormontato da due piccoli limoni, si materializza nel vaso del Museo Pepoli di Trapani, debitamente corredato da un’efficace decorazione a doppia faccia con le illustrazioni di un viandante e l’esposizione di un sereno dialogo tra fanciulle all’ombra di una dracena e frutti e foglie di oniriche dimensioni. Paesaggi con ruderi e alberi in una trascurata campagna cari alla moda neoclassica ancora intrisa di movenzerocaille nelle cornici (fig. n° 4 ).
Potrebbe costituire oggetto d’iniziale sorpresa e disorientamento nell’indagine delle corrispondenze semantiche scoprire che il disegno del vaso a ghirlande e protomi leonine poggiante su una base quadrata si trovi tra le maioliche realizzate nel primo decennio dell’800 nell’Opificio del Barone Malvica, come indicano i riferimenti e le pertinenze individuati nella coppia di anfore prive di coperchi con le iniziali “SS” del committente (fig. N° 5 ). Le sostanziali varianti decorative che vi si riscontrano, i mutamenti della forma che, perdendo eleganza e slancio rispetto al progetto grafico, si allontanano dall’autentica interpretazione neoclassica, sono giustificate dalla realizzazione avvenuta a diversi anni di distanza e ai mutati gusti del XIX secolo incipiente. Il fenomeno dell’esecuzione tardiva trova conferma nella notizia, fornita dallo stesso Mortillaro, che modelli, attrezzature e disegni, chiusa la fabbrica per la morte del duca nel 1780, furono acquistati dal barone. L’ipotesi sembra ormai convalidata anche da alcune realizzazioni in terraglia operate nell’Opificio della Rocca sui disegni acquisiti da Sperlinga. E’ il caso, ad esempio, della caffettiera col monogramma PLdel servito dedicato a Pietro Lanza -al quale veniva fornito un pavimento “decorato a scudo e rosone” intorno al 1808- e delle anfore con anse verticali che traggono origine da un altro disegno di Calogero Pecora (fig. N° 6 ). La coppia caratterizzata dal fondo giallo, testimone di semplificazioni, metamorfosi e sunteggiature improprie, manca delle previste riserve rettangolari del collo, delle modanature nella parte bassa del ventre sostituite da semplici nastri (fig. n° 7 ). C’è da scommettere che la “vuota” riserva e l’affastellato graticcio che sostituiscono l’articolata cintura mediana del progetto, il colore giallo sulfureo del fondo, accoppiato al rosa-violetto delle anse e al mal riuscito finto porfido del piede, non avrebbero incontrato il gusto non solo dell’autore, ma soprattutto del Duca che amava circondarsi di opere d’arte e raffinate suppellettili, che ricorreva direttamente alle botteghe parigine per l’acquisto di ricercati effetti personali.
Migliore fortuna avrebbe potuto avere lo stesso disegno nel suo compimento, se l’ornamentista alle dipendenze del barone, tradendo il gusto dell’autore, non avesse introdotto, oltre alla variante del nastro a roselline accoppiate, ispirato alla passamaneria delle livree della servitù, l’improbabile giallo citrino del piede. Né lo salvano il finto porfido del fondo e la precisione delle acuminate foglioline sequenziali dei nastri (fig. n° 8 ).
A segnare il distacco definitivo dall’impianto grafico originale può essere evocato il vaso ovoide dal piede a campana (fig. n° 9 ). In questa circostanza soltanto la forma sembra essersi salvata in fase di realizzazione postuma. Gli ornamenti si allontanano notevolmente da quelli previsti, i festoni neoclassici a rilievo si trasformano in insulse ghirlandine disegnate di fiorellini decisamente ottocenteschi, le foglie di acanto aggettanti del disegno - al piede, alla base e al labbro- sono vittime di una levigatura che le ha trasformate in cordoncini verdi privi di rilievo, non soltanto materiale. Né le metamorfosi architettoniche e decorative finiscono qui perché sembra essersi piegata agli interessi encomiastici dell’intraprendente barone persino l’alzata dalla tesa traforata disegnata a Malaspina. Nella sua attuazione i fiori selvatici e le spine del cavetto, simili a quelli con cui ogni giorno doveva fare i conti il piede di mastro Calogero nella campagna ancora selvaggia di Malaspina, cedevano il posto al gusto molle di alcune cartoline illustrate indirizzate all’ignoto “Ill.mo Sig.r Bar.ne Schembri di Parma” (fig. n° 10 ).
A testimoniare la perfetta aderenza stilistica delle maioliche quando vengono immaginate e date pronte nella fabbrica Sperlinga dallo stesso operatore, interviene il disegno della profumiera d’impianto architettonico neoclassico realizzato con minime varianti in una coppia di inusitate dimensioni a smalto blu e dorature a freddo, custodita nella collezione della Famiglia Monroy di Giampilieri insieme ad una consimile straordinaria coppia di enormi vasi dello stesso colore con l’illustrazione allegorica a rilievo dei quattro continenti. Le opere sono documentate da un atto notarile del gennaio 1762 che registra l’allestimento di “otto vasoni con pottini sopra, con coverchi e fiori, stagnati con oro di zecchino all’estremi seu infacci di stagno fino e liscio color di blu ( ... ) uguali alla mostra quale resta in potere di detto illustre duca” (fig. n° 12 ).
Nelle due fontane, mirabili lavori di stecca preparati per la “flora”, le sostanziali varianti che rispetto al progetto vi si riscontrano sono, se confrontate con quelle che interessano gli oggetti finiti nell’Opificio del barone Malvica, perfettamente aderenti al gusto, allo stile vigoroso e agli intendimenti dell’autore. Il mascherone e il fastigio della fontana bianca che ha accidentalmente perduto alcuni elementi sommitali – probabilmente i volatili presenti sulla carta- possiedono il medesimo gusto e identica forza espressiva sia nel progetto grafico che nella maiolica. Calogero sembra disegnare e modellare infatti con lo stesso impegno e la medesima felicità. Se poi alle colonne tortili egli preferisca in fase operativa le lesène e la trabeazione mossa di un triplice arco rilevato rispetto al fronte retto del progetto, l’immaginazione e l’impeto creativo sottesi rimangono identici (fig. n° 13) .
La fontana col delfino pervenuto mutilo nella coda (fig. n° 14 ), più che la rappresentazione del pesce di Arione, è una vera e propria laica allegoria del mare scevra di citazioni classiche in cui le conchiglie, le incrostazioni e le valve si confondono con le carni del pesce. Queste erano le intenzioni di Calogero disegnatore, coerenti i risultati ottenuti dal medesimo autore nelle vesti di modellatore. Quello che colpisce, se è vero che i delfini sono dotati di memoria e intelligenza quasi umane, è l’espressione dello sguardo che mastro Calogero, ideatore e figulo, ha dato alla sua creatura. I colori azzurro e verde colano dalla testa del pesce, diventano iridescenze nella conchiglia laterale, si fondono, alla base, nel verde delle alghe che vivacità di movimento acquisterebbero bagnate dall’acqua degli zampilli.
Fichi e mele, erbe fiori e frutti non transitati dalle illustrazioni dell’Erbario delle quattro stagioni (4)ornano la tesa dal bordo mistilineo di un vassoio con uno stemma nobiliare non facilmente individuabile. Il disegno di mastro Calogero, utilizzato nella realizzazione di diversi serviti che il duca faceva preparare per donarli ai suoi amici -tra i quali un posto di privilegio occupava anche il viceré Marco Antonio Colonna, destinatario di alcune stufe in maiolica realizzate a Malaspina- trova precisi riferimenti nel vassoio centrato dallo stemma della famiglia Filangeri di Sicilia, custodito nel Museo Artistico Industriale di Napoli (fig. n° 15 ). I ritmi e gli interventi pittorici lo distinguono dalla scodella con la stessa impresa che vide la luce, per pratici motivi di integrazione dei pezzi perduti, almeno venti anni dopo nella “Fabrica nuova del Barone Malvica,” come si legge sul verso dell’oggetto. In esso la minuscola zanzara dipinta a trompe-l’oeil è volata via, i fiori di campo non sono più quelli del vassoio fatto da mastro Calogero, “lazzi sorbi” sono innestati sui tralci delle mele e i rami “del dolce fico”.
Il progetto di un pavimento “ad attacco” chiude la galleria dei disegni ritrovati. Quattro piccoli garofani, circondati da archetti al centro di una corona di minute foglie, poggiano su una pagina di pergamena dai lembi arrotolati aperta a mostrare il delicato omaggio. Sebbene l’assenza dei colori non renda in questo caso del tutto esplicite le intenzioni dell’autore, resta il convincimento di trovarsi ancora una volta di fronte a una creazione originale (fig. n° 16 ).
Sulla paternità degli elaborati grafici non dovrebbero sorgere dubbi. Le numerose testimonianze disponibili indirizzano inequivocabilmente al direttore dell’atelier. Mastro Calogero, impegnandosi nel novembre del 1762 con il principe Tommaso Celestri e Grimaldi, cognato del duca di Sperlinga, per la fornitura di “otto vasi di creta grandi” dichiarava di doverli allestire secondo il modello in stucco che aveva consegnato al committente. In un altro atto notarile del medesimo anno, accingendosi il vasaio ad approntare un pavimento dipinto a tutta pagina, affermava che avrebbe decorato i mattoni “conformi al disegno consegnato”, approvato e firmato dallo stesso duca. In una carta del 1767, dichiarandosi debitore di mastro Luigi Russo, contava di restituire la somma in forma rateale e, qualora non gli fosse stato possibile, di consegnare tanti vasi da giardino “uguali alla mostra di creta cruda e al disegno in carta firmato di suo pugno” di equivalente valore pecuniario. Ma sappiamo che l’irrequietezza del carattere non gli consentiva di essere sempre puntuale negli impegni neanche col suo abituale datore di lavoro e protettore e che conobbe persino i rigori della galera per avere usato violenza alla moglie in un momento d’ira.
Nel 1769 Francesco Oneto, stipulando un contratto con il decoratore Bernardino Letieri del Regno di Napoli per dipingere sotto la guida di Pecora diversi mattoni da pavimento, indicava che il disegno sarebbe stato approntato dal direttore della fabbrica. Nel novembre del 1776 assicurando al Duca il possesso di cinque stufe destinate al Viceré, prometteva di allestirle “a tenore del disegno” che egli stesso aveva sottoposto all’attenzione del potente destinatario.
In verità il versatile maestro ebbe la ventura di operare in un ambiente culturalmente ricco e stimolante, una sorta di cantiere - cenacolo venutosi a formare a Malaspina per la presenza dei migliori artisti e artigiani del periodo chiamati alla ristrutturazione della villa. Egli si trovò a contatto con gli architetti Giovan Battista Cascione e Venanzio Marvuglia, che presiedevano ai lavori murari, coi pittori Francesco Manno e Luigi Borremans, autore degli affreschi del “semicircolo del giardino” con “architetture, figure e paesaggi”, del soffitto e del coro della cappella; con i frescanti Benedetto Cotardi, Andrea Furlotti e Gaspare Gavarretta. Ebbe modo di intessere rapporti di lavoro con stuccatori come Francesco Alajmo e Bartolomeo Sanseverino per “i posi” delle fontane, marmorai provetti come Gioacchino Vitagliano e Domenico Gallina, argentieri di vaglia come Gaspare Cimino e Gaspare Leone. Né poté fare a meno di ammirare le porcellane d’importazione europea di cui era ricca la dispensa ducale, né di misurarsi con gli stessi maiolicari palermitani del periodo come i decoratori Nicola Sarzana -con cui ebbe modo di lavorare in società nell’estate del 1763- e Andrea Gurrello o di confrontarsi con i maestri vasai venuti da Milano come Michele Brambilla e da Napoli come Andrea Atanasio e Gennaro Del Vecchio, di interagire con i portatori di esperienze maturate fuori dalla Sicilia come Vincenzo Rizzo, Antonio La Rosa, Anello Amallia, Antonino Vigorito e Bernardino Litieri suo collaboratore nel ’69.
Il documento(5)che meglio degli altri si offre a rendere esplicite la personalità e le competenze del nostro vasaio è l’istanza da lui stesso presentata nel 1774 al Viceré per essere esonerato dall’obbligo di sottoporsi alla maestranza dei comuni lavoratori dell’argilla. In essa Calogero Pecora si professa “manipolatore di faienza di tutte le sorti e terraglia uguale alli servigii di tavola d’Inghilterra, particolarmente esperto nella fabbricazione di “servigi di tavola, vasi di tutte le qualità intagliati con fiori frondi frutti di tutti sorte di colori e a gruttisci, roba di architettura di fajenza (...) come pure di tutte le sorte di sculture fatte a forma di fajenza e tutt’altre sorti che non si possono esprimere e di qualsivoglia altre cose che gli saran richieste, vieppiù di mattoni migliori di quelli di Napoli sia di stagno che di colore e di creta”. Tali “manipolazioni”, concludeva, non potevano essere assimilate a quelle praticate dagli stazzonari trattandosi piuttosto di “professione che viene operata (...) e per “meccanica d’ingegno e con penna”. Una sintetica quanto efficace definizione dell’operatore sapiente, un “sumere superbiam” da parte di chi intende iscriversi di diritto alle arti liberali in nome dell’intelligenza progettuale e della perizia tecnica.
Note
1) fr. Terzo fuoco a Palermo 1760-1825, ceramiche di Sperlinga e Malvica, cat. a cura di L. Arbace, R. Daidone, Palermo 1997
2) L.M. Maiorca Mortillaro, Terrecotte stagnate e majoliche della Fabbrica Sperlinga a Malaspina (Palermo) dal 1761 al 1780, Palermo 1905
3) L’opera era stata attribuita alla fabbrica di Santa Lucia al Borgo nel Catalogo citato
4) B. Besler, L’erbario delle quattro stagioni, UTET-Garzanti 1998
5) ASCP, Provviste vol. 806/191 a. 1773-74, f. 212
Facendo seguito all’interessante articolo Sei maioliche in cerca d’autore, a firma di Ugo Gobbi ed Elisabetta Alpi, apparso sul numero di Marzo 2005 di CeramicAntica, pare opportuno segnalare che, tra le fabbriche italiane del “terzo fuoco” candidate alla paternità delle opere individuate nel M.I.C. di Faenza, trovano giustificati motivi di concorrenza anche le manifatture palermitane del ‘700. Esse sono state corredate di documenti e apparati iconografici fin dal 1997, non solo nel Catalogo a cura di Luciana Arbace e dello scrivente, ma anche in altri saggi ospitati da questa Rivista. Le sei maioliche prive di autore potrebbero infatti essere adottatedalla Fabbrica di Santa Lucia al Borgo, dalla Fabbrica di Caniggia a Sant’Erasmoe, con maggiore fortuna, dallo stesso atelierdel Duca di Sperlinga. Indicazioni più esplicite non possono fare a meno della conoscenza diretta, tattile, se non olfattiva (trattandosi di decorazioni floreali), dei reperti in questione.
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