venerdì 20 aprile 2018

IL PANNELLO DI MAIOLICA DI SAN CIRO A MARINEO



R. Daidone

Martirizzato sotto l'imperatore Diocleziano, Ciro fu medico ed eremita in Alessandria d'Egitto, centro della cultura filosofica e alchemica del mondo orientale. Le sue reliquie, arrivate per groviglio di vie in Italia, vennero accolte e venerate in Campania e in Sicilia. Il teschio, almeno dagli inizi del '700 custodito in una pregevole urna d'argento nella città di Marineo, è oggetto di culto fervidissimo e incondizionato. Oltre che protettore degli abitanti, è invocato come guaritore e consolatore dei malati. 
Nonostante l'omogeneità figurativa evidente nelle opere musive del XII secolo di Palermo e Monreale (Cappella Palatina, Chiesa della Martorana, Duomo), che avrebbero potuto servire da modello alle successive rappresentazioni, Ciro ha assunto nel tempo diverse connotazioni iconografiche. Scomparsi il bisturi e la cassetta dei medicinali, presenti nelle immagini più antiche, gli unici elementi unificanti delle moderne sono rimasti il libro che il santo tiene in mano, indice della sua scienza, e la palma del martirio. 
In un'inedita acquaforte ottocentesca, eseguita dall'incisore palermitano Ciaccio, che molto più interessante potrebbe rivelarsi se si conoscesse la pubblicazione di cui faceva parte, le pagine del libro espongono, in un latino disposto a perdere immediatezza nella traduzione, una scritta che sottolinea la funzione intermediaria del taumaturgo, "et nunc visit me dominus ut curarem te". Alle sue spalle - compendio illustrativo del paese -  la rocca con la croce, la Chiesa Madre con gli scalini innanzi e, in lontananza, una costruzione che ha tutta l'aria di un castello, quello dei Beccadelli e Bologna che furono signori del feudo di Marineo. 
Nell'imponente parato di mattoni maiolicati, che raffigura il patrono sul muro esterno della Chiesa Madre, la figura di San Ciro si discosta da quella dell'incisione citata e dalle altre rappresentazioni note e si adagia - su di un basso piedistallo - all'interno di una nicchia d'altare disegnata con dovizia di particolari. La lapide, finemente incorniciata da foglie e cartocci gialli emergenti dal verde ramina, che reca la leggenda D. Cyrus Christi Martir egregius/ Marinentium Patronus, pur non accennando alle doti taumaturgiche, evidenzia il sostegno accordato a tutti i Marinesi e potrebbe costituire un indizio di committenza non necessariamente residente nel paese.
L'insieme delle mattonelle smaltate che costituiscono un retablo di cm. 208 per 423, si rivela elegante ed armonioso nelle linee, frutto riuscito di un cartone che non ignora, come accade in altre realizzazioni siciliane dello stesso genere, proporzioni e leggi di prospettiva. Nell'assunzione "tubolare" della posa, la figura si distingue dalla "espansività" corporea delle altre rappresentazioni per il forte condizionamento della complessa struttura architettonica che la racchiude. 
L'azzurro di cobalto del motivo foliato, che arricchisce lesène e colonne su cui poggia l'arco a tutto sesto della cupola, anch'esso arricchito di fronde e bacche, persiste nel prezioso variegato finto marmo della nicchia e all'interno del prominente fregio centrale affiancato da due angeli. Meno deciso nella tonalità - per le abbondanti diluizioni del cobalto - lo stesso colore si diffonde nella finzione del muro cui l'altare disegnato sembra poggiare grazie alla partecipazione ben riuscita delle ombre che ne determinano il rilievo per una visione dal basso. I contorni nel colore bruno di manganese sono delineati con perizia non facilmente rilevabile in altre opere dello stesso tipo come, ad esempio, il grande pannello del Crocifisso della Chiesa Collegiata di Monreale e i pannelli - originariamente collocati nella cuspide campanaria - della Chiesa Madre di Carini di periodo precedente.
 Nella storia della maiolica siciliana l'opera di Marineo non ha avuto l'attenzione e il rilievo che merita. Antonino Ragona (La Maiolica siciliana, Palermo 1975) che le dedica una breve nota, accreditando una collocazione cronologica di inizio '700, ne attribuisce l'esecuzione al maiolicaro Giorgio Milone firmatario, nel 1715, dell'opera di Carini, o allo stesso autore, ignoto, del rivestimento di Monreale. Un paragone e una datazione poco convincenti, sia per la diversità qualitativa dei manufatti in esame che per la differenza dell'impianto compositivo e per gli accordi cromatici soprattutto che, nel nostro pannello, sembrano evidenziare insistenti influssi napoletani tardo-settecenteschi. Il giallo, che caratterizza gli incarnati delle opere partenopee di questo periodo, dilaga nelle figure dei due angeli allegorici della cimasa, nel mantello aderente della figura, nelle geometriche modanature architettoniche, nei misurati festoni. Tuttavia dell'esecuzione palermitana non si può dubitare, né di una stretta collaborazione con gli architetti del tempo adusi alla fornitura dei cartoni. La bottega potrebbe essere quella di Don Nicola Sarzana (1701- 1786) il migliore dei "mattonari " palermitani della seconda metà del XVIII secolo, attivo anche in alcuni pavimenti maiolicati di Corleone e di Caccamo, attento agli influssi forestieri ed unico concorrente dei riggiolari partenopei, che durevole successo riscossero nella clientela isolana. 
La ricerca di documentazione archivistica, che avrebbe dovuto supportare il restauro recente dell'opera, dovrebbe restringersi all'ultimo quarto del '700 quando più insistenti nell'ambito palermitano si fanno le committenze pubbliche e private delle composizioni in maiolica e più stretti i rapporti con gli architetti della nuova generazione tendente al Neoclassicismo.
La rimozione delle mattonelle ha in compenso evidenziato alcuni aspetti che non era possibile esaminare prima. La colorazione rossastra del biscotto - per abbondante presenza di intrusioni ferrose nell'argilla - e l'esistenza della "nicchia" (per una maggiore presa della malta in fase di collocazione) nella pagina posteriore dei singoli mattoni confermano, anche nella loro misura approssimativa di 17 cm di lato (due di quadro del palmo di Palermo), l'uso dei materiali e le tecniche esecutive peculiari delle maestranze palermitane. 

Se fosse stato fruibile il pavimento maiolicato dell'Oratorio dei Bianchi con l'"historia di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto", realizzato nel 1782, depredato prima o durante il restauro recente dell’edificio, il paragone con una delle più interessanti realizzazioni documentate del maestro Nicola Sarzana, coadiuvato dal figlio Carlo e dal genero Gurrello, avrebbe potuto fornire più espliciti orientamenti sulla nostra opera che, al di là delle valenze religiose, riveste un ruolo di particolare importanza nell'ambito della storia della maiolica e testimonia del gusto e delle tendenze culturali dei nostri padri, oggi non più così consapevolmente indirizzate come attesta la persistente incuria del patrimonio artistico ereditato.     

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