IL PAVIMENTO DELLA BADIA
Di Rosario Daidone
La Chiesa del Monastero delle benedettine di Caccamo, fondato nella seconda metà del XVI secolo, vanta, secondo gli studi del settore della maiolica, il possesso del pavimento più interessante per valore artistico e integrità di conservazione del Settecento siciliano.
L’opera poté mantenere nel tempo quasi intatte le sue condizioni primigiene grazie al fatto di trovarsi in un luogo solo occasionalmente aperto ai fedeli, quasi esclusivamente riservato alla preghiera e alle funzioni religiose delle suore. Le parti meglio conservate, dove i colori si rivelano nella loro originaria freschezza, sono naturalmente le zone perimetrali e l’area del coro meno sottoposte all’usura del calpestio che causò invece irreparabili danni in una breve porzione vicino la porta d’ingresso in cui volute e motivi foliati accompagnano un nastro verde con una sintetica scritta proemiale – resa quasi illegibile- riferita alle anime dei defunti, “Absorbet ne absorbeant”, la Chiesa le accoglie affinché le tenebre non le divorino.
Superati i pilastri che reggono il matroneo, un intatto paesaggio marino con veliero scosso dalla tempesta è chiamato a rappresentare, attraverso la legenda “Concutitur non obruitur” i travagli di cui la stessa Chiesa soffre e la certezza di non esserne travolta. La decorazione che l’affianca prende le mosse dalle ampie volute che inglobando e superando il paesaggio arrivano alla tomba delle suore. Ornamenti a cartocci, foglie e festoni rococò retti da putti mirabilmente disegnati di scorcio con visione dal basso, fiori e uccelli, contrastanti motivi di vita e di morte, si dipartono dalla lapide bianca del sacello datato 1701 che è il soggetto primo e il cardine intorno a cui ruota visivamente e concettualmente tutta l’opera. Prima di arrivare al coro un canestro colmo di frutti affiancato da volatili, natura morta di rara bellezza, costituisce il coronamento del tappeto. Medaglioni di personaggi classici agli angoli estremi rappresentano il trascorrere veloce del tempo, il trionfo della morte sulla fama già annunciata dalle trombe che i putti reggono nel festoso scenario centrale. Le vanità terrene e la gloria, rappresentate dalle prosopopee dei tronfi personaggi coronati d’alloro, si infrangono nella didascalia del paesaggio che si trova ai piedi dell’altare maggiore,“Felicitatis Omen”, ellissi di un indubbio presagio di felicità, punto d’arrivo, meta del viaggio spirituale, certezza di ogni beatitudine.
Si tratti della rappresentazione marina col veliero in avaria, del paesaggio fluviale col ponte e dell’ambiente lacustre col sole che vi si rispecchia, l’acqua, simbolo del riscatto spirituale, è il tema dominante dell’opera. E sono brani di un unico discorso allegorico sia le vedute paesaggistiche che le espressioni letterali del pavimento in cui concettualmente si inserisce l’epitaffio della sepoltura delle benedettine MONIALES OBLATAS S.P./ BENEDICTI CIVITATIS CACCA/BI VITA FUNCTAS MORS NON/ SEPARAT: SED HOC UNO/SOCIAT IN TUMULO/ UNAQUE CONDECO/RAT CORONA/1701. La morte non separa le defunte suore oblate del Santo Patriarca Benedetto della città di Caccamo, ma le associa in questo unico sacello e insieme le fregia con un’unica corona. Esplicitazioni non prive di orgoglio cenobitico che, affidando alla storia l’appartenenza secolare alla cittadinanza caccamese, sottolineano l’adesione spirituale delle suore alla regola di San Benedetto evocata anche dalla corona, emblema, insieme alla stella, del loro ordine.
La democratica decisione capitolare di ultilizzare un solo ipogeo che accogliesse i corpi di tutte le monache, dalla più dotta e autorevole alla più umile delle converse, unite nella morte, (come lo erano state nella preghiera e nel lavoro durante la vita) motivò come si è detto l’intera decorazione che può idealmente essere divisa in quattro zone tra loro collegate: le ampie volute dell’ingresso, il paesaggio con la nave, gli ornamenti centrali che affiancano la lastra tombale del 1701, la parte antistante l’altare maggiore con altro paesaggio e lo stesso coro arricchito da altri medaglioni di personaggi “laureati”.
Il pavimento ha una lunghezza di metri…..e una larghezza di….metri. Circa diecimila furono le tessere impiegate a rivestire l’intera superficie, mattonelle formate, come quelle dell’Oratorio dei Bianchi, nella misura palermitana di “once dieci di quadro” (circa cm. 17,5X17,5) adoperate prima che si affermasse definitivamente, verso la fine del secolo, il sesto napoletano dei quadrettoni di cm. 21 X 21. Il cotto, particolarmente rosso per l’abbondanza di ossidi di ferro, fornito dagli stazzoni palermitani dislocati lungo la foce dell’Oreto, presenta le caratteristiche dell’argilla a grana media, ricca di intrusi, estratta dalle rive dello stesso fiume.
Quando venne decisa la collocazione dell’opera maiolicata, nel suolo della chiesa di Caccamo esistevano, oltre alle quattro lastre tombali del XVII secolo poste ai piedi degli altari lungo l’unica navata, anche la sepoltura centrale delle monache con lapide marmorea a basso rilievo datata 1701 e vi poggiavano, come oggi, i due pilastri che reggono, contrapposto all’altare maggiore, il matroneo munito di una singolare cancellata in ferro battuto. Da parte dell’architetto che approntò il disegno da ingrandire nella bottega del pittore di maiolica e, attraverso lo spolvero, riportare sui mattoni accostati e numerati prima della seconda cottura, occorreva dunque studiare un coerente insieme decorativo che prendesse in considerazione, insieme alla forma geometrica della navata, le interruzioni del mantello pavimentale causate dalla presenza delle lapidi e dei gradini degli altari laterali. Si giustifica così il ricorso all’adozione della bordura di foglie e frutti corrente lungo i muri perimetrali dell’ambiente e quindi ad una partizione dell’opera che prevedeva, secondo le intenzioni della committenza, di accordare, non soltanto visivamente, l’intero ornato alla centralità della tomba del 1701 delimitata ed esaltata da una doppia cornice da cui si dipartono gli ornamenti vegetali, i putti e i motivi di accompagnamento. L’invadenza degli scalini sull’ornato venne risolta con l’assunzione di cornici delimitanti formate da rosoni e festoni verticali che agevolano l’inserimento degli stessi altari nella continuità longitudinale dell’impiantito. Non vennero invece prese in considerazione le aree occupate dai pilastri che reggono il matroneo che risultano perfettamente inserite nel contesto decorativo. Il concetto di adattamento all’esistente, di cui bisogna tener conto per non incorrere in errori cronologici, previde anche la scansione dei motivi che con ininterrotta articolazione prospettica segnano il percorso verso il coro scandito dalla serie di didascalie disposte nella logica susseguenza di un metaforico viaggio spirituale.
I colori della superficie smaltata stimolano sensazioni di calda solarità. Il verde ramina e il giallo di cromo dominanti insieme al blu cobalto accompagnano la fluidità del disegno che non mostra segni di ripensamenti o di stanchezza. Le espressioni delle figure, di piccole o grandi dimensioni che siano, rivelano la sapienza del decoratore nelle sfumature cromatiche e la sua maturata esperienza. I volatili, tutti riconoscibili nella loro varietà aviaria, il gufo, i pappagalli, il picchio si pongono in naturali atteggiamenti alle prese con le bacche del fogliame o con innocui serpentelli. Forti gli artigli dell’aquila, più delicate le zampe di altri uccellini che svolazzano tra le fronde e le volute. La natura morta del canestro di vimini intrecciati, con frutti e fiori, devota offerta del mondo contadino, ha la forza di un dipinto su tela in cui si misurarono i pittori più celebrati del secolo precedente.
Il mestiere del decoratore si rivela soprattutto nella pittura dei paesaggi, piccoli quadri nel grande affresco dell’insieme. Nella veduta della nave gli spettatori della riva sembrano, tranne qualcuno, non curarsi del pericolo che corre il veliero, privo dell’albero di poppa, ma ancora capace di dominare i flutti. Negli altri paesaggi fluviali o lacustri uomini e donne si conducono alle rive con strumenti musicali. L’atmosfera calda e festosa per il sole splendente che si riflette nell’acqua, il conforto offerto dalle abitazioni vicine, rievocano i classici idilli e la pace della campagna cantata dai poeti dell’Arcadia. L’ambiente è tipico della moda rococò, non soltanto per l’evidenza delle sue icone e l’insistenza delle conchiglie, ma piuttosto per l’articolazione robusta delle volute, l’arditezza degli scorci, l’amore per il paesaggio, l’agilità della prospettiva.
La superficie decorata non ammette pausa di respiro, lo sguardo non riesce a dominare per intero l’intreccio del disegno, l’attenzione si sofferma su una rosa, su di una grottesca verde di non immediata percezione. Non a caso il visitatore, ignorando l’insieme di non semplice dominio visivo, è rapito dai particolari del pavimento, un putto, e non sempre il più bello per arditezza di scorciato, è riprodotto su tutti i libri di maiolica, il veliero è diventato l’icona dell’opera. Mi soffermerei con maggiore soddisfazione su altri particolari, magari sull’espressione di una grottesca, presenza subliminare, dipinta nelle sfumature del verde diluito; sul volatile che ghermisce il serpente, sulla serietà espressiva del gufo, ma soprattutto sull’eleganza di alcuni pastori che si accompagnano a personaggi femminili dai lunghi colli in innocenti e aurorali intese di canti. La sinfonia del complesso, espressione culturale e visiva degli entusiasmi del secolo XVIII, è un inno mozartiano alla vita. La morte, ricordata da alcuni simboli e dal freddo marmo delle tombe, se non lontana è deprivata dalla paura e dall’angoscia che di solito l’accompagnano. Tutto sapientemente converge nella scritta trionfante del coro “Omen Felicitatis”, felicità di chi, come le oblate, dopo un’esistenza spesa nella preghiera, nello studio e nel lavoro, davanti alla tomba allontanano il terrore della fine, anzi, nella consapevolezza del perdono, cantano nella morte l’inno alla rinascita attraverso i colori primaverili e le scene incoraggianti del pavimento della loro chiesa.
L’assenza di una documentazione specifica, da tempo infruttuosamente ricercata negli archivi, che non consente l’indicazione certa dell’autore e della data di esecuzione del pavimento, ha alimentato una serie di ipotesi che non riescono tuttavia a smentire quella indicata dagli studi tradizionali. Essi, tenendo conto della documentata presenza del mattonaro palermitano Nicola Sarzana a Caccamo nel 1751 per un sopralluogo in preparazione del perduto pavimento della Parrocchia dell’Annunziata, attribuiscono l’opera della Badia allo stesso maestro, indiscusso protagonista della pittura pavimentale del XVIII secolo1. In tal senso appaiono probabili anche le motivazioni storiche addotte dalle prime esegesi cui appartengono le ricerche e gli studi di Alessandro Giuliana Alaimo (1956) che legava la commissione dell’opera allo spirito di emulazione della badessa pro tempore e ai suoi rapporti di parentela col parroco Don Filippo Gallegra che al Sarzana aveva riservato una munifica e calorosa accoglienza.
Come accadeva nella maggior parte degli edifici appartenenti alle comunità religiose non sempre fornite di adeguate risorse economiche, gli interventi architettonici nella chiesa, tra aggiunzioni e trasformazioni dettate dai mutamenti di gusto, si prolungarono negli anni e arrivarono allo stato in cui oggi il monumento si trova intorno 1748, come suggerisce la data che si legge sul suo portale. Poiché gli abbellimenti della Badia si estesero fino al 1756 con la realizzazione degli stucchi affidati a Bartolomeo Sanseverino, si può prudentemente aggiungere che la posa del pavimento possa essere avvenuta subito dopo questa data.Non è una pura coincidenza che gli archivi palermitani registrino nel periodo compreso tra il 1751 e il 1760 diversi contratti stipulati dai Sarzana con i produttori di cotto (Angelo Gurrello, Giuseppe Cappadonia, Giuseppe Attardi) che prevedevano esclusive e pluriennali forniture di un gran numero di mattoni grezzi da decorare. La frequenza delle commesse ricevute dalla bottega giustifica l’assunzione nello stesso periodo di diversi aiutanti come il pittore Emanuele Gulotta e il maestro Giuseppe Cosentino particolarmente esperto nella manipolazione dello stagno. Le forniture al Barone Armao di Santo Stefano di Camastra, all’Arcivescovo di Messina e al palazzo palermitano dei Guzzardi, rappresentano soltanto una parte della fervente attività svolta da Nicola Sarzana intorno agli anni in cui il maestro si misurava nella realizzazione del pavimento dell’Oratorio dei Bianchi (1753 ca,) legata all’opera della nostra Badia da numerose affinità artistiche.
Il trasporto delle piastrelle da Palermo dovette avvenire via mare fino a Termini Imerese e da qui, per impervi viottoli, a dorso di mulo, sino a destinazione. Un itinerario via terra, con tappe intermedie ad Altavilla Milicia e a Termini Imerese era stato invece seguito qualche anno prima dal Sarzana che, atteso, a Caccamo era arrivato a cavallo in vista dell’allestimento del pavimento della parrocchia dell’Annunziata. I fragranti donativi di cui il maestro fu premurosamente fatto oggetto sono prova del rispetto e dell’ammirazione di cui godeva e dell’amore per l’arte dei cittadini di Caccamo decisi, come attestano altri pregevoli monumenti della città, a dotarsi delle opere prodotte dagli artisti più celebrati del periodo. Come per altri manufatti della stessa complessità il pavimento della Badia dovette essere montato sotto la sorveglianza di Nicola o del figlio Carlo che, insieme al Gurrello, collaborarono all’allestimento dell’opera come si nota in alcuni particolari dell’ornato che non appartengono alla stessa mano. Una mattonella accidentalmente staccatasi dal contesto sotto la balaustra del coro rivela il sistema di numerazione adottato per la posa in opera. Essa reca nel verso i numeri 6 e 49 tracciati in manganese ad indicare la fila di appartenenza e il posto in essa occupato; l’incavo al centro serviva alla maggiore aderenza della tessera posata con malta composta da sabbia, calce e gesso che, nella lentezza dell’essiccazione, consentisse spostamenti e correzioni. Eppure due medaglioni con le prosopopee di personaggi classici che si trovano agli angoli estremi del coro risultano erroneamente montati. Il fatto lascia pensare, più che ad una inammissibile distrazione originaria, ad una manomissione dovuta a lavori di muratura eseguiti nel tempo intorno all’altare maggiore.
LA BOTTEGA SARZANA
La notorietà raggiunta in Sicilia dalla famiglia Sarzana (o Zarzana) - Carlo, Nicola, il genero Andrea Gurrello e Carlo junior - poggia sulla realizzazione di una lunga serie di pavimenti destinati agli edifici pubblici, alla rifondazione dei palazzi nobiliari e alle ville barocche che a gara si costruirono nel corso del XVIII secolo.
A Carlo, la cui attività è ancora poco nota, si potrebbe attribuire il singolare intervento eseguito a Palermo nella cripta delle Repentiteda poco casulamente venuta alla luce. In essa i Santi Francesco e Chiara, effigiati a grandezza naturale ai piedi della croce in un mosaico di mattoni di diverse misure, sovrastano il piccolo altare dell’ultimo quarto del XVII secolo adornato di figurazioni vegetali che non riescono ad attenuare la drammaticità dell’andito buio fornito degli essiccatoi per i cadaveri delle prostitute convertite. Le croci che affiancano l’altare, inusitatamente formate da bipartite mattonelle da pavimento, tradiscono la precarietà dell’insieme e la riutilizzazione, anche nell’impiantito, di elementi modulari destinati ad altri edifici.
Segue di almeno un decennio il lavoro nell’oratorio di Santa Cita consegnato dal mattonaro nel 17021. Qui il tappeto maiolicato, seppure nelle condizioni di degrado causato dall’uso, rivela la fantasia e il gusto dell’autore. Costituito, come quello di Caccamo, da piastrelle di cm. 17,5 di lato che a gruppi di quattro formano serti di fiori di fantasia, esso si estendeva con ampia bordura dal terrazzo, dove arriva la scala in pietra di Billiemi di accesso all’edificio, fino al locale interno dell’antioratorio e alla cappella del Crocifisso. Ideale raccordo con gli alberi e i fiori del giardino interno sottostante, le ornamentazioni alimentano sensazioni di colorata frescura che predispongono al godimento dei candidi stucchi del Serpotta (1685-88) nella chiesa coerentemente fornita di un intarsiato pavimento marmoreo di Gioacchino Vitagliano (1699). Scevra dei riferimenti iconografici e delle studiate simbologie che interessano il pavimento di Caccamo, l’opera assume il ruolo di un generico apparato ceramico adatto a qualsiasi destinazione ambientale. La decorazione si giova della velocità esecutiva del disegnatore e della padronanza dei moduli trattati bene appresa dal figlio Nicola. Reso vivace dalle pennellate gialle sul verde più o meno intenso del carnoso fogliame, il disegno in bruno di manganese rimarca i particolari dopo la stesura dei colori come in genere si nota nelle opere pittoriche all’acquarello.
Gli interventi negli oratori palermitani di S. Mercurio (1715), dei Pellegrini (1719) e delle Dame (1741), testimoniano di altre botteghe e altri operatori che nella prima metà del secolo incoraggiavano la moda e sostenevano la richiesta pressante dei mattoni dipinti: decoratori più o meno noti come Gabriele Pavone, o Giorgio Milone che nel 1715 firmava i pannelli con santi del campanile della Chiesa Madre di Carini, Lorenzo Gulotta, figlio o fratello del più noto Emanuele che nel 1741 forniva il pavimento istoriato dell’Oratorio delle Dame al Giardinello (Vedi reliquato davanti all’altare che presenta alcune affinità d’impianto con quelli della nostra Badia), Giuseppe e Antonio Gurrello che nel 1750 venne ingaggiato per fabbricare in loco un pavimento a “onda di mare” per la parrocchia di Caccamo forse mai eseguito.
L’opera di Carlo Sarzana a Santa Cita non raggiunge la struttura unitaria che, intorno alla metà del secolo, conosceranno le illustrazioni più impegnative del figlio Nicola (nato nel 1701) il quale non sembra però discostarsi dal gusto paterno nelle prime realizzazioni autonome. Fitomorfiche tessiture barocche simili a quelle del celebre oratorio palermitano si trovano infatti nel battistero della SS. Annunziata di Caccamo, reliquato del pavimento che adornava interamente la Chiesa, allestito nel 1752 da Nicola.
Uno dei primi lavori eseguiti dal maestro sotto le direttive di un architetto –che occorrerebbe individuare per quanto riguarda Caccamo- è quello che nel 1747 vide impegnato l’ingegnieroGiovan Battista Cascione nella fornitura dei disegni per i rivestimenti pavimentali di Casa Guzzardi nella piazza Bologni. La formazione specifica del mattonaro, maturata nel laboratorio paterno estraneo alla lavorazione dell’argilla, trova testimonianza nell’acquisto presso gli stazzoni della città del cotto da dipingere. La smaltatura come lavoro specialistico si affermava per la prima volta nella bottega palermitana a garanzia dei migliori risultati artistici perseguiti.
I mattoni metà bianchi e metà dipinti a fioroni color turchino, destinati nel 1751 alla Chiesa del Collegio di Maria di Torretta, conquistavano anche la provincia alla nuova moda. La fama raggiunta in tutta l’Isola dal Sarzana, operatore nelle arti liberali che poteva fregiarsi del titolo di don, è testimoniata dall’ordinativo di alcuni pavimenti historiatirichiesti nel ‘52 dall’Arcivescovo di Messina con l’intermediazione di un illuminato intenditore qual era il principe di Torremuzza Francesco Paternò Castelli.
Vivente ancora il fondatore, l’impresa Sarzana acquistava autonomia sul mercato attraverso l’acquisizione diretta dell’argilla che Nicola affidava a un socio stazzonaro per la prima lavorazione. Materia da cavare, come di consueto, nei terreni ai margini del fiume Oreto, ricca di ossidi ferrosi e d’intrusi che aiutano la ricognizione e lo studio dei reperti.
L’esecuzione di un bucolico impiantito, progettato nel ’52 dall’architetto Francesco Ferrigno per l’appartamento di un’aristocratica badessa della famiglia Filangeri nel distrutto Monastero palermitano dei Sette Angeli, a fiorami, uccellini e paesaggio, indica il transito della bottega agli scenari paesaggitici che, ampi e articolati, culmineranno nel pavimento dell’oratorio dei Bianchi e con maggiore consapevolezza in quello della Badia di Caccamo.
Dopo la scomparsa di Carlo, sostituito dal pittore Emanuele Gulotta ingaggiato nel 1753, si rende ancor più evidente l’intervento degli architetti. L’ingegniere Rosario L’Avvocata, attraverso un impegno notarile in cui per la prima volta appare il nome del figlio di Nicola (di nome Carlo come il nonno), curava per il barone Armao di Santo Stefano di Camastra la realizzazione di un pavimento “a onda di mare” che accogliesse un paesaggio centrale. Già in uso nel pieno ‘600, questa tipologia modulare, formata da mattoni che una diagonale in manganese distingue nella doppia colorazione bianca e verde (o bianca e blu) interessava non soltanto le abitazioni private, ma anche i luoghi sacri disposti a rinunciare all’uso tradizionale del marmo e a sostituirlo con i rivestimenti ceramici non meno appariscenti dei “mischi” con i quali la maiolica nel Settecento doveva fare i conti. In tal senso si rivela particolarmente “moderna” la scelta della pavimentazione ceramica da parte delle suore benedettine di Caccamo e la rinuncia al marmo già presente nelle lapidi a mischio della loro badia.
A rendere evidente il successo riscosso e il potere esercitato dai Sarzana sul mercato interviene la notizia relativa ad una società di stazzonariche, assumendo nel ’54 il pittore Antonio Celestri, si vedevano ostacolata da don Nicola l’apertura di una “vetrina” nella via dello Stazzone richiesta al Senato per mantenerci le mostre dei loro prodotti ad utilità del pubblico degli acquirenti.
Non si configura come fatto occasionale che uno degli architetti più in voga, Giovan Battista Cascione2, si rivolgesse proprio a loro per corredare di pavimenti dipinti il palazzo dei Marchesi Santacroce, uno dei più grandiosi della città, in costruzione nella via Maqueda. L’enorme quantità delle maioliche richieste dal cantiere convinceva il direttore dei lavori di rivolgersi nel 1758 anche alle fabbriche napoletane in grado di sfornare mattoni di dimensioni più grandi rispetto a quelle praticate nell’Isola. Un incentivo per Nicola a provarsi nella più impegnativa “misura di Napoli” (cm. 21X21 ca.) immediatamente dopo la fornitura di Caccamo che gli consentisse di vincere la concorrenza partenopea. La realizzazione, insieme al genero Gurrello e in società col vecchio maestro Milone, del progetto dell’architetto Salvatore Attinelli per la Chiesa di Sant’Angelo dei Linari (1759), l’esecuzione di altri estesi impiantiti della casa Gravina, per il palazzo di Alia dei marchesi Santacroce e per il Convento palermitano di San Francesco di Paola ispirati, questi ultimi, alle pitture del soffitto di Vito D’Anna, documentano il successo e l’incremento delle richieste che si estendevano anche a lontani committenti come la Chiesa di San Giuliano di Petralia Sottana dove don Nicola, così come aveva fatto per gli interventi a Caccamo, si recava di persona nel ’60 per sorvegliare la collocazione del complesso pavimentale ideato dall’architetto Inguaggiato.
Realizzate in quest’anno le opere per il refettorio di Santa Chiara e il parlatorio del monastero delle suore benedettine di S. Rosalia, che si trovava nel quartiere dei figuli dello Stazzone, i Sarzana, oltre a lavorare ancora per l’enorme palazzo Santa Croce- Sant’Elia, da dove sono misteriosamente scomparse, dopo il recente restauro, le scene mitologiche del pavimento napoletano, affidavano alla fornace migliaia di mattoni destinati alla riedificazione di abitazioni private che sarebbe lungo elencare. Né dovette più costituire motivo di eccessiva preoccupazione la presenza in città dei maestri napoletani come gli Attanasio decisi a propagandare e vendere direttamente in Sicilia le loro riggiole. Delle fabbriche partenopee si servirono tuttavia diversi architetti del periodo: nel Palazzo Santacroce il pavimento della galleria, mutilato e reso anonimo dall’incuria,fu infatti allestito e firmato nel 1761 da Nicola Giustiniano; palazzo Ganci mantiene ancora intatto il pavimento napoletano della sala degli specchiin cui Luchino Visconti girò alcune scene del Gattopardo; di Andrea Gigante si conservano nella Galleria Regionale della Sicilia i progetti per i pavimenti ancora esistenti di villa Camastra del principe di Trabia realizzati a Napoli.
Nel ’63 una digressione manifatturiera che attesta la perizia di don Nicola nella manipolazione degli smalti è costituita dall’allestimento di enormi vasi di una particolare tonalità di turchinodestinati alla flora della casena di Malaspina che egli si impegnava di fornire, benvisti dall’architetto Cascione, in società con l’esordiente maestro Calogero Pecora divenuto in seguito direttore della fabbrica di vasellame dipinto a “terzo fuoco” che il duca Francesco Oneto aveva annesso alla sua villa3.
Un discorso a parte merita il pavimento istoriato che rivestiva la sala dell’Oratorio dei Bianchi riservata alle riunioni dei confrati della buona morte ancora priva delle decorazioni parietali del pittore Gaspare Fumagalli (1777). Per l’ambiente, vasto cento metri quadrati, i duemila e duecento mattoni occorrenti, della misura napoletana ormai sperimentata, voluta dall’architetto Fama Bussi, furono ordinati a Nicola Sarzana nel 1765 dal Principe di Torremuzza, deputatodella Reale Compagnia,particolare estimatore delle maioliche4.Dal momento che non si conoscono né le figurazioni del manufatto né l’impegno artistico riversatovi, la sua perdita non appare tanto grave quanto quella dell’opera maiolicata dell’oratoriovero e proprio di cui resta una riproduzione fotografica in bianco e nero nell’archivio dellaPublifotoe alcune descrizioni che l’accreditano come una delle più interessanti realizzazioni del Settecento. Il tappeto, di cui sopravvivono la bordura e poche mattonelle originali nella misura consueta di cm. 17X17 che si perdono, anche qui dopo il restauro dell’edificio, in un mare di cotto moderno, si articolava in tre distinti registri concentrici che mettevano in risalto l’historia di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto. A giudicare dalla testimonianza fotografica, la narrazione veterotestamentaria era molto più ricca e articolata di quella che con lo stesso soggetto Giuseppe Testa dipingerà sulle pareti nel 1794 allegandola alle scene insistenti sul tema della morte violenta culminanti nell’affresco della Decollazione del Battista di Antonino Mercurio.
La centralità e l’enfasi assegnata al fatto biblico, al di là di ogni interpretazione ricercata, sembra sottolineare la particolare importanza che i committenti riservavano alla miracolosa invenzione dell’acqua. Evidente appare l’ufficio della redenzione dei reprobi che la Compagnia dei Bianchi, secondo pratiche e ricette consolidate, rendeva disposti a ben morire per volere e mandato delle autorità civili e religiose. Per il resto è difficile dire se il concerto degli ornati era adatto a suscitare nell’animo dei potenti confrati sentimenti di paradisiache anticipazioni o provocare nei poveri condannati dolorose sensazioni della perdita del mondo terreno. Di fatto le incoraggianti verzure e l’intensa luminosità del pavimento erano, come nell’opera di Caccamo, inno alla bellezza ed elogio della vita onestamente vissuta. Da qui, più che dalle scene parietali, la Compagnia attingeva convinzioni e conforto per l’alto e remunerato compito di riconciliare gli abietti con l’Eterno.
L’opera ancora intatta fu visitata con l’editore Sellerio da Antonino Ragona nel 1975 che l’attribuì, insieme al pavimento di Caccamo, al maestro Nicola. Nella sua originale condizione poterono ammirarla anche altri esegeti che, ignorando gli interventi nell’edificio dell’architetto Fama Bussi (documentati dal 1753 al 1766) e la presenza dei Sarzana nella sala Fumagalli, finirono con l’assegnarne il progetto all’architetto Emanuele Cardona e l’esecuzione a fabbriche napoletane di fine Settecento5.
Le caratteristiche del cotto, le scelte decorative operate e i raffronti con i manufatti partenopei confermano l’attribuzione del lavoro ai Sarzana che dovettero impegnarvisi alcuni anni prima dell’intervento compiuto nella sala degli aggiontamenti dello stesso edificio. La determinazione cronologica dell’apparato è incoraggiata anche qui dalle dimensioni delle tessere residue, quadrittonidi 17,5 centimetri di lato, fabbricate nel periodo in cui non si era ancora affermato in Sicilia il sesto più grande che caratterizzava il pavimento della sala Fumagalli.
Che i mattoni dei Bianchi, come quelli di Palazzo Sant’Elia e di tutti i pavimenti siciliani smembrati, potessero essere oggetto di un avventato collezionismo non era sfuggito ai saccheggiatori. Eppure, “i bandi a tutela e salvaguardia dei beni culturali nel Mezzogiorno risalgono ai “retrivi” Borboni a partire dal 1755 e trovano solenne riaffermazione nell’articolo 9 della Costituzione”.6
E’ riferibile a Nicola Sarzana, che partecipava nel 1766 alla formazione degli statuti degli stazzonari, l’annotazione dell’architetto Giovanni Del Frago durante i lavori eseguiti nel palazzo del mercante genovese Ambrogio Gazzino sul Cassaro (1768),spese per aver fatto il disegno in grande del mattonato di camerone con spese di cartone e pittore7. Essa costituisce, anche per il pavimento di Caccamo, una prova esplicita della consolidata collaborazione artistica tra decoratori e architetti che si incaricavano di affidare ai mattonari, liberi di definire variazioni e dettagli, lo sviluppo dei progetti e di accettare o rifiutare l’opera finita8.
Nel ’72, in società con un produttore di cotto, i 4000 mattoni “a onda di mare” che l’architetto Francesco Di Miceli richiedeva ai Sarzana per i corridoi e i balconi del palazzo Mannino indicano la funzione dipasse par toutassegnata all’elegante decorazione modulare, elemento funzionale persino nel prospetto laterale della Cattedrale di Palermo e rivestimento di corridoi e logge di numerosi palazzi e ville suburbane.
Le ultime notizie sull’attività dei Sarzana sono contenute negli atti notarili del 1773 che vedono Nicola impegnato nella riscossione di alcune somme dovutegli per lavori pregressi. Dopo la scomparsa del genero Gurrello e del figlio Carlo, il vecchio mattonaro, non più in grado di lavorare a partire dal 1775, vedovo e in condizioni economiche di assoluta necessità, chiusa la prestigiosa bottega, si ridusse a condividere con altri una modesta casa d’affitto nella via Trappetazzi fino al giorno della morte sopravvenuta il 20 dicembre del 17869.
Cessata l’attività dei Sarzana, si attrezzavano a soddisfare le declinanti commissioni siciliane i vecchi concorrenti. Il documento della fornitura di Angelo Gurrello - fratello dello scomparso Andrea - alla marchesa di Santa Croce: mattoni stagnati bianchi a tarì 10 il centinaio euna festina di valenza per la cappella della casena di Bellolampo a tarì 11, appare di non poca importanza. Il prezzo deiquadrittoni rossi (di semplice terracotta) stabilitoa tarì 3 e grani 10 il centinaio,offre infatti la possibilità di determinare il valore commerciale assegnato in questo periodo alla smaltatura e alla decorazione pittorica. Tenuto conto della relativa stabilità dei prezzi, caratteristica del passato, sugli undici tarì il centinaio doveva dunque attestarsi più o meno il costo dei mattoni della Badia di Caccamo che, nella storia dei pavimenti maiolicati del Settecento rappresentano il momento più felice delle realizzazioni siciliane.
I pavimenti bianchi adornati da una semplice “festina” fabbricati nel 1777 per la Marchesa di Santa Croce, sorella del Duca di Sperlinga, come quelli destinati nel 1780 alla casa del principe d'Aragona, sembrano decretare la crisi degli istoriati e la riconquista del mercato da parte delle fabbriche napoletane con i loro rutilanti mattoni “ad attacco” destinati a nuovi gusti e alle più economiche pretese dei 1500 baroni, dei 142 principi e dei 178 marchesi che alla fine del secolo affollavano l’Isola.
Note
1) Doc. 1
1750 ( 25 febbraio) ASP. Not. Nicolò Barone, Vol. 5951, f. 684
ANTONINO BORRELLO (GURRELLO) si obbliga con il sacerdote Pietro Giovenco di Caccamo per la fornitura di mattoni "ad onda con linea nera" per il pavimento della chiesa madre di Caccamo. Il sacerdote Giovenco farà a sue spese la fodera della fornace, fornirà l'acqua dell'abbeveratoio, garantirà che nessuno molesti Borrello per la cava della creta nel territorio di Caccamo, pagherà a Borrello il trasporto del nozzolo e di legni per la cottura purché reperiti nel territorio di Termini e Caccamo, fornirà tutti i magazzini e le stanze necessarie. Prezzo pattuito tarì 16 il centinaio. Il lavoro inizierà nel mese di marzo 1750 e dovrà terminare entro il mese di maggio 1750. (già citato da A. Ragona, La maiolica Siciliana, pag.105)
Doc. 2
Archivio Parrocchiale SS. Annunziata di Caccamo vol. mandati dell'anno XV ind. 1751-1752 fogli non numerati - XII mandato
Rev. Sac. dr. Rosario Patti tesoriero della Venerabile Parrocchiale Chiesa e Compagnia della SS. Annunziata di Questa città di Caccamo Pagate a don Matteo Amato onze due, tarì 29 e grana diciotto, se li pagano per averli spesi ed erogati pella venuta fece in questa [città]Don Nicolo' Sarzana mattonaro per fare il concerto delli mattonidevono servirepel pavimento di detta Chiesa, cioè
A mastro Giuseppe Calcara tarì dieciotto
per avere andata tre volte a Palermo
con sua cavalcatura per detto affare det-
to....................................................……...onze 0.18.0
A Filippo Geraci tarì tredici per loghero
d'un cavallo per avere andato due volte
in Palermo cioè una volta a pigliare det-
to di Sarzana per portarlo in questa [città]e
l'altra volta per portarlo in Palermo
detto..............................................……….onze 0.13.0
A Giuseppe Randazzo tarì sei per una caval-
catura di carico per portare da questa [città]in
Palermo galline ed altri di detto Sarzana
detto...............................................………onze 0.6.0
A detto di Calcara tarì 16.14 per vari stallag-
gi di dette cavalcature in Palermo, alla
Milicia [Altavilla Milicia]ed in Termini [Imerese]detto..........onze 0.16.14
A detto Di Calcara tarì 13.8 per averli spe-
si alla Milicia e Termini per mangiare di
Sarzana detto..............................……..onze 0.13.8
A detto di Calcara onze 0. 10.10 per prezzo
di numero 6 galline a tarì 1.15 l'una le me-
desime reagalate a suddetto di Sarzana
detto...........................................……...onze 0.10.10
A voi medesimo tarì 3.15 per rotoli 2 e
mezzo miele a tarì 1.10 rotolo ……….onze 0.3.15
A suddetto onze 0.1.10 per pane .…..onze 0.1.10
A sudetto onze 0.1.8 per prezzo di rotoli 2
pasta ............................................ onze 0.1.8
Al medesimo onze 0.0.9 per rotolo mezzo
tomazzo[formaggio].......................onze 0.0.9
Al medesimo onze 0.0.12 per rotolo mezzo ca-
scavallo[caciocavallo].............….onze 0.0.12
Al suddetto onze 0.2.17 per prezzo di quar-
tucci 9 e mezzo vino a grana 6 quartuccio
.......................................... …..onze 0.2.17
Al suddetto grana 4 per verdure onze 0.0.4
Al suddetto grana 12 per prezzo di numero 12
uovi..........................................onze 0.0.12
Al suddetto grana 11 per pesci..onze 0.0.11
Ad un servente ........................onze 0.0.4
Col presente ed apoca in piede si faranno buoni a nostri conti onze 2.29.18
Caccamo lì 20 ottobre 1751 14a ind. Don Filippo Motta superiore
Don Giuseppe Vincenzo Ponte superiore
Antonino Ciaccio superiore
Notum qualiter per acta mea sub die vigesimo octobris 15a ind. facta per dictum de Amato favore dicti thesaurieri generale causa in presenti mandato quontenta detto ............onze 2.29.18
not. Cecala.
Doc. 3
Archivio parrocchiale della SS. Annunziata di Caccamo vol. di mandati dell'anno XV ind. 1751-1752 fogli non numerati - X mandato.
Reverendo Sac. dott. Don Rosario Patti tesoriere della venerabile parrocchiale chiesa e compagnia della SS Annunziata di questa città di Caccamo pagate a Nicolò Sarzana mattonaro di Palermo onze dieci a buon conto seu caparra del prezzo de' mattoni da farsi e perfezionarsi dal medesimo per servizi di detta nostra Chiesa pel spazio di mesi dieci e cioè da consegnarli ut dicitur a bocca di varca di mare di Palermo metà nel mese di maggio 1752 e metà nel mese di luglio di detto anno da ragionarsi ad onze 4.20.10 migliaro per tutta quella quantità di mattoni sarà di bisogno per detta Chiesa,conforme appare per obbligazione fatta per detto di Sarzana pelli atti di notar Martino Cecala sotto il 16 ottobre 15a indizione 1751 che col presente e apoca in piede,che si faranno buoni a conti-Caccamo lì 15 ottobre 15a ind. 1751 onze 10
Don Filippo Motta Superiore
Don Vincenzo Ponte Superiore
Antonio Ciaccio Superiore
Notum qualiter per acta mea sub die 16 octobris 15a ind. 1751 in quontractus obligationis factum per dictum de Sarzana Panormitanum cum superioribus sacerdotis SS Annuntiatae exrat et apparet apoca dictum unciarum decem in computum eius mercedis et per causa in dicto quontractus contenuta et espressata onze 10
Don Blasius de Blasio absentia Not. Martini Cecala
(docc. resi noti dallo studioso A. Giuliana Alaimo)
Fornitura pavimento di Santa Cita
ASDP, vol. 6, c. 50, 26 ottobre 1702
Agli atti del not. Cristoforo Cavarretta esiste apoca di once 27, tarì 14 e grani 16 a Mastro Carlo Zarzana per attratto e magisterio ut dicitur per detto contraente avere fatto l’ammadonato nell’antoratorio di detta Ve.le Compagnia e sono per infrascritta lista del seguente tenore:
in primis once 21 d’ammadonato di valenza a quadretti pagati per mano di Giovanni Antonio Lugaro a ragione di once 1 e tt. 6 la canna;
per portatura di madoni tt. 18;
per mattoni restati seu rigirati del primo disegno once 1 tt. 8;
per giornati 7 di mastro muratore once 1 e tt. 25;
per giornati 7 di manovale tt. 25 e g. 20;
per giornati 7 del picciotto tt. 15;
per calcina, rina e gisso once 1 tt. 25. g. 6.
In tutto once 27.14.16). Governatore della Compagnia era Giovanni Caradonna e i consiglieri Giacomo Piscetti e Gaspare Benfatta.
2) La proposta di S. Caronia Roberti (L’architettura del Barocco) dell’architetto Giganti come autore dei disegni, già messa in dubbio da A. Blunt (Barocco siciliano, 1986), appare definitivamente superata dall’invenzione dei numerosi documenti d’archivio in nostro possesso che assegnano i disegni e la direzione dei lavori all’architetto G.B. Cascione
3) Cfr. R. Daidone, La Ceramica Siciliana, autori e opere dal XV al XIX secolo, Palermo 2005
4) ASP, Not. Sarcì Domenico Gaspare, Vol. 10236, f. 634, 20 aprile 1765
5) M. C. Ruggeri Tricoli, L’architettura degli oratori, Palermo 1995
6) S. Settis, Il Bello dei Borboni, in “Il Sole-24 Ore”, 19 gennaio 2003.
7) Il documento relativo mi è stato fornito dall’Arch. Natale Finocchio al quale rinnovo i ringraziamenti per la preziosa segnalazione
8) Dalla storia della maiolica palermitana non sembrano emergere notizie di collaborazione più esplicite di questa, anche se l’intervento dell’architetto non pare debba essere escluso nel pavimento e nella spalliera che i Lazzaro prepararono nel 1591 per il palazzo senatoriale.
9) Atti dell’Archivio parrocchiale di S.Giovanni de' Tartari, vol. def. anno 1785-1786, atto n° 127, f. 9 v. Anno Domini 1786 ind. V die vigesima decembris Don Nicolaus Zarzana (sic)sponsus quondam D. Rosae aetatis annorum octuagintaquinque repentina morte correptus omnibus Sacramentis corroboratus hodie obiit. Eius corpus de licentia illustrissimi et reverendissimi Episcopi Vicarji Generali de Vanni in sella gestatoria depurtatum sepultum fuit in Ecclesia conventus S. Mariae Angelorum, ut dicitur alla Gancia.
Iconografia
foto del pavimento dell’Oratorio dei Bianchi
Mattonelle residue dell’Annunziata di Caccamo
Pavimento della Badia con dovizia di particolari.
Rilievo del pavimento di Caccamo
Mattonelle di censo con l’emblema di San Benedetto (stella sormontata da corona)
Reliquato dell’Oratorio delle Dame
Reliquati del Palazzo Sant’Elia.
ATTENZIONE i raffronti con il pavimento dell’Oratorio di Sant’Elena e Costantino non hanno nulla a che vedere con il pavimento dell’annunziata di Caccamo. Il pavimento di S. Elena è Costantino fu fabbricato nel 1731 da Antonino Gurrello in società con Don Giuseppe Li Gotti il probabile pittore del pavimento (vedi atto notarile).
Un pavimento molto interessante fabbricato negli anni cinquanta del Seicento, attribuibile a Onofrio Cosentino, si trovava nell’Oratorio della Casa Professa a Palermo, in parte recuperato, è esposto in alcuni pannelli nel Museo della Casa professa. I gesuiti erano clienti di mastro Onofrio che, oltre ai catusi per il loro acquedotto, fornì anche le maioliche per la cupola della Chiesa distrutta nel secondo conflitto mondiale. Particolarmente esperto nella copertura delle cupole e dei campanili, oltre ad allestire i mattoni per Porta Nuova, fu autore del rivestimento del Campanile della Chiesa di San Giorgio di Caccamo.
1731 ( 13 febbraio) ASP. Not. Giuseppe Domenico Azzarello, Vol. 3044, f. 615
Mastro Antonino Gurrello e Don Giuseppe Li Gotti forniscono i mattoni per pavimentare l’Oratorio dei Santi Elena e Costantino su disegno istoriato fornito dall’Architetto Andrea Palma.