venerdì 18 maggio 2018

UN CILINDRONE CALATINO 
ESPOSTO NEL MUSEO SALINAS 
DI PALERMO

L'opera riveste una notevole importanza per la presenza della firma dell'autore Nunzio Campoccia (Opus Nuntii Campoccia, 1795)e della data di esecuzione; la scritta Calatajero Urbs gratissimaposta alla base del cilindrone potrebbe sottolineare -non senza orgoglio- l'appartenenza alla citta' siciliana del manufatto nonostante la maniera decorativa sia invenzione delle temute concorrenti fabbriche liguri che numerosissime maioliche esportarono nel '700 in Sicilia .L'esistenza di un'altra opera firmata dal nostro autore nel Museo delle Ceramiche di Caltagirone e le notizie d'archivio testimoniano dell' antica incisiva presenza della famiglia nel contesto della lavorazione della maiolica nella citta', a partire dal XVII secolo, con Matteo e Antonino Caompoccia. Figlio di Antonino, Nuzio, al lavoro nell'officina accanto alla Chiesa di Sant'Agata, assieme al fratello maggiore Giacomo, e' artefice di numerose forniture apotecarie e di importanti pavimenti come quelle documentate delle Chiese calatine di Santo Stefano e del Salvatore. 
Dell'importanza storica del manufatto presente nel Museo si rese conto il direttore Salinas che ne parla in una lettera privata dell'8 Didembre del 1905.

mercoledì 2 maggio 2018

Una boccia palermitana firmata dal torniante e dal decoratore

UNA STRAORDINARIA MAIOLICA PALERMITANA 
con i nomi del decoratore e del torniante

di Rosario Daidone

Nel 1607 nel quartiere dell'Albergheria in una casa di via delle Pergole muore mastro Geronimo Lazzaro che da Naso (Me), sul finire del '500, era arrivato a Palermo con i fratelli Cono e Paolo per impiantavi un'officina di maiolica rivelatasi la piu' prestigiosa della citta' tra Cinque e Seicento. Venuto meno l'animatore dell'impresa e restituiti i locali in affitto alla legittima proprietaria, Cono decide di tornare al paese dove si dedichera' al commercio della seta, Paolo resta invece a Palermo dove il 7 novembre del 1610 sposera', all'eta' di 26 anni, una ragazza di 16 , Isabella Oliva, figlia di un noto proprietario di stazzone. Dapprima insieme al cognato e poi, dopo la morte del suocero, da solo, Paolo si adoperera' per buona parte della prima meta' del secolo in numerose forniture di vasellame alle spezierie siciliane.
Una boccia da farmacia emersa di recente da una collezione privata riveste un ruolo di primo piano nella storia della maiolica post-rinascimentale. Imponente nell'espansione del ventre, dal collo elevato in elegante proporzione, essa sfoggia nell'ampio medaglione dalla cornice “a mensole” l'immagine di un santo che dagli addentellati dovrebbe essere riconosciuto come Sant'Antonio Abate posto in un paesaggio convenzionale con prato verde e improbabili montagne. Ma quel che piu' interessa gli studi e' la dettagliata decorazione dei trofei militari del verso divisi in quartieri, l'insistita presenza della sigla senatoriale SPQP e la ripetuta data di fabbricazione che potrebbero giustificare, da sole, un ruolo di preminenza nel panorama storico della maiolica siciliana.
Al di la' del valore artistico, che poggia in gran parte sul rapporto armonico tra l'architettura e la decorazione ricca di dettagli, l'interesse preminente e' suscitato dai due cartigli che recano il nome del torniante Paolo Lazzaro e quello del decoratore Andrea Pantaleo, noto firmatario di altre opere pervenute. Nell'ambito del settore figulino, la congiunzione dei due nomi offre una rara testimonianza della consapevolezza degli operatori, che, senza scomodare l'illustre precedente del vaso Francois, poggia sulla reciproca importanza che forma e decorazione assumono nell'opera e che “danno la prova di un duplice intervento, correlato o indipendente, di una divisione del lavoro la cui reciproca situazione e valenza” secondo il Ragghianti (1986) era, e ancora oggi sembra per gran parte da definire.
A rendere ancor piu' interessante il magnifico reperto concorre il documentod'archivio del 15 settembre del 1618 in cui Andrea Pantaleo “pictor monrialensis” s'impegnava di lavorare per un anno intero nell'officina Oliva di cui Paolo Lazzaro era ormai titolare. Il confronto cronologico tra la data di esecuzione del 1617 segnata nel reperto e quella di assunzione del pittore dell'anno seguente, potrebbe a prima vista apparire incongruo se non si tenesse conto che la boccia potrebbe essere stata eseguita l'anno prima della stipula dell'atto notarile che formalizzava un rapporto di lavoro gia' esistente. Sappiamo infatti che Andrea Pantaleo, non solo si trovava al servizio dell'officina Oliva quando era ancora titolare il suocero di Paolo, scomparso 18 novembre 1610, ma che i rapporti tra i fratelli di Naso e il pittore di Monreale risalivano a tempi piu' antichi quando Geronimo Lazzao lo volle testimone di importanti vendite di vasellame e, nel 1606, gravemente ammalato, come teste delle sue ultime volonta'. Scomparso Geronimo, Andrea era restato nell'officina con gli eredi come si evince dalla testimonianza per una vendita di maioliche residue durante la gestione provvisoria di Cono e l'individuazione di una boccia a questo dedicata firmata “Per Mastro Cono Lazzaro”.
Le notizie intorno al decoratore Pantaleo vicino alla generazione di Geronimo, piuttosto che a quella di Paolo Lazzaro, si perdono dopo il 1618. Ne' conosciamo la data della sua scomparsa che dovette avvenire probabilmente intorno agli anni venti del secolo. I dati archivistici relativi alla vita di Paolo si allungano invece sino al 6 gennaio del 1638, data della sua morte.
Non e' occasione di secondaria importanza che l'opera firmata si associ ad un'altra, appartenente alla medesima collezione, caratterizzata dalle stesse forme e dimensioni ma dalla decorazione mista a quartieri e trofei con la figura di un santo (San Fedele ?) dipinto nell'ampio medaglione con identico paesaggio. Per le comuni peculiarita' di forma e decorazione, attribuibili allo stesso torniante e al medesimo decoratore, doveva far parte della stessa fornitura apotecaria. Pervenuta insieme alla sorella datata e firmata, con questa dovrebbe restare legata in coppia come ulteriore testimonianza della perizia dell'uno e dell'altro operatore. 

mercoledì 25 aprile 2018

venerdì 20 aprile 2018

IL PANNELLO DI MAIOLICA DI SAN CIRO A MARINEO



R. Daidone

Martirizzato sotto l'imperatore Diocleziano, Ciro fu medico ed eremita in Alessandria d'Egitto, centro della cultura filosofica e alchemica del mondo orientale. Le sue reliquie, arrivate per groviglio di vie in Italia, vennero accolte e venerate in Campania e in Sicilia. Il teschio, almeno dagli inizi del '700 custodito in una pregevole urna d'argento nella città di Marineo, è oggetto di culto fervidissimo e incondizionato. Oltre che protettore degli abitanti, è invocato come guaritore e consolatore dei malati. 
Nonostante l'omogeneità figurativa evidente nelle opere musive del XII secolo di Palermo e Monreale (Cappella Palatina, Chiesa della Martorana, Duomo), che avrebbero potuto servire da modello alle successive rappresentazioni, Ciro ha assunto nel tempo diverse connotazioni iconografiche. Scomparsi il bisturi e la cassetta dei medicinali, presenti nelle immagini più antiche, gli unici elementi unificanti delle moderne sono rimasti il libro che il santo tiene in mano, indice della sua scienza, e la palma del martirio. 
In un'inedita acquaforte ottocentesca, eseguita dall'incisore palermitano Ciaccio, che molto più interessante potrebbe rivelarsi se si conoscesse la pubblicazione di cui faceva parte, le pagine del libro espongono, in un latino disposto a perdere immediatezza nella traduzione, una scritta che sottolinea la funzione intermediaria del taumaturgo, "et nunc visit me dominus ut curarem te". Alle sue spalle - compendio illustrativo del paese -  la rocca con la croce, la Chiesa Madre con gli scalini innanzi e, in lontananza, una costruzione che ha tutta l'aria di un castello, quello dei Beccadelli e Bologna che furono signori del feudo di Marineo. 
Nell'imponente parato di mattoni maiolicati, che raffigura il patrono sul muro esterno della Chiesa Madre, la figura di San Ciro si discosta da quella dell'incisione citata e dalle altre rappresentazioni note e si adagia - su di un basso piedistallo - all'interno di una nicchia d'altare disegnata con dovizia di particolari. La lapide, finemente incorniciata da foglie e cartocci gialli emergenti dal verde ramina, che reca la leggenda D. Cyrus Christi Martir egregius/ Marinentium Patronus, pur non accennando alle doti taumaturgiche, evidenzia il sostegno accordato a tutti i Marinesi e potrebbe costituire un indizio di committenza non necessariamente residente nel paese.
L'insieme delle mattonelle smaltate che costituiscono un retablo di cm. 208 per 423, si rivela elegante ed armonioso nelle linee, frutto riuscito di un cartone che non ignora, come accade in altre realizzazioni siciliane dello stesso genere, proporzioni e leggi di prospettiva. Nell'assunzione "tubolare" della posa, la figura si distingue dalla "espansività" corporea delle altre rappresentazioni per il forte condizionamento della complessa struttura architettonica che la racchiude. 
L'azzurro di cobalto del motivo foliato, che arricchisce lesène e colonne su cui poggia l'arco a tutto sesto della cupola, anch'esso arricchito di fronde e bacche, persiste nel prezioso variegato finto marmo della nicchia e all'interno del prominente fregio centrale affiancato da due angeli. Meno deciso nella tonalità - per le abbondanti diluizioni del cobalto - lo stesso colore si diffonde nella finzione del muro cui l'altare disegnato sembra poggiare grazie alla partecipazione ben riuscita delle ombre che ne determinano il rilievo per una visione dal basso. I contorni nel colore bruno di manganese sono delineati con perizia non facilmente rilevabile in altre opere dello stesso tipo come, ad esempio, il grande pannello del Crocifisso della Chiesa Collegiata di Monreale e i pannelli - originariamente collocati nella cuspide campanaria - della Chiesa Madre di Carini di periodo precedente.
 Nella storia della maiolica siciliana l'opera di Marineo non ha avuto l'attenzione e il rilievo che merita. Antonino Ragona (La Maiolica siciliana, Palermo 1975) che le dedica una breve nota, accreditando una collocazione cronologica di inizio '700, ne attribuisce l'esecuzione al maiolicaro Giorgio Milone firmatario, nel 1715, dell'opera di Carini, o allo stesso autore, ignoto, del rivestimento di Monreale. Un paragone e una datazione poco convincenti, sia per la diversità qualitativa dei manufatti in esame che per la differenza dell'impianto compositivo e per gli accordi cromatici soprattutto che, nel nostro pannello, sembrano evidenziare insistenti influssi napoletani tardo-settecenteschi. Il giallo, che caratterizza gli incarnati delle opere partenopee di questo periodo, dilaga nelle figure dei due angeli allegorici della cimasa, nel mantello aderente della figura, nelle geometriche modanature architettoniche, nei misurati festoni. Tuttavia dell'esecuzione palermitana non si può dubitare, né di una stretta collaborazione con gli architetti del tempo adusi alla fornitura dei cartoni. La bottega potrebbe essere quella di Don Nicola Sarzana (1701- 1786) il migliore dei "mattonari " palermitani della seconda metà del XVIII secolo, attivo anche in alcuni pavimenti maiolicati di Corleone e di Caccamo, attento agli influssi forestieri ed unico concorrente dei riggiolari partenopei, che durevole successo riscossero nella clientela isolana. 
La ricerca di documentazione archivistica, che avrebbe dovuto supportare il restauro recente dell'opera, dovrebbe restringersi all'ultimo quarto del '700 quando più insistenti nell'ambito palermitano si fanno le committenze pubbliche e private delle composizioni in maiolica e più stretti i rapporti con gli architetti della nuova generazione tendente al Neoclassicismo.
La rimozione delle mattonelle ha in compenso evidenziato alcuni aspetti che non era possibile esaminare prima. La colorazione rossastra del biscotto - per abbondante presenza di intrusioni ferrose nell'argilla - e l'esistenza della "nicchia" (per una maggiore presa della malta in fase di collocazione) nella pagina posteriore dei singoli mattoni confermano, anche nella loro misura approssimativa di 17 cm di lato (due di quadro del palmo di Palermo), l'uso dei materiali e le tecniche esecutive peculiari delle maestranze palermitane. 

Se fosse stato fruibile il pavimento maiolicato dell'Oratorio dei Bianchi con l'"historia di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto", realizzato nel 1782, depredato prima o durante il restauro recente dell’edificio, il paragone con una delle più interessanti realizzazioni documentate del maestro Nicola Sarzana, coadiuvato dal figlio Carlo e dal genero Gurrello, avrebbe potuto fornire più espliciti orientamenti sulla nostra opera che, al di là delle valenze religiose, riveste un ruolo di particolare importanza nell'ambito della storia della maiolica e testimonia del gusto e delle tendenze culturali dei nostri padri, oggi non più così consapevolmente indirizzate come attesta la persistente incuria del patrimonio artistico ereditato.     

TRE GENERAZIONI DI LEONI NELLO SMALTO DEI TROFEI

(PUBBLICATO IN CERAMICANTICA, novembre 2006 )

di Rosario Daidone
In seguito alle ricerche archivistiche condotte in questi ultimi anni i supporti forniti dai documenti siciliani alle indagini nazionali sulla maiolica rinascimentale da farmacia - divenuti sempre più numerosi e interessanti - esaltano il ruolo di centralità che ebbero nel Mediterraneo i porti di Palermo e Messina nel ‘500 e sottolineano lo sviluppo che trovò la scienza alchemica nell’Isola. Alcune recenti testimonianze connesse alle fabbriche di Casteldurante, rintracciate nelle carte palermitane del XVI e XVII secolo, estendono la serie dei rapporti già individuati tra la grande produzione delle fabbriche italiane e la diffusa fruizione siciliana.
Gli acquisti di diverse bornìeusatedi Faenza, operati nel 1595 dagli speziali Mario e Giuseppe Fulco presso un rivenditore palermitano, s'inseriscono nell’animato circuito commerciale delle maioliche forestiere disponibili sul mercato locale che, ricco di prodotti toscani, liguri, napoletani, calatini, è solo in parte condizionato dalle realizzazioni di Caltagirone e Sciacca e dalle forniture intestate ai fratelli Lazzaro recentemente immigrati da Naso. Promette invece ulteriori sviluppi il noto atto notarile che i due fratelli stipularono nel 1605 col mercante - già operante a Messina - Cesare Candia, per l’acquisizione di una dozzina di vasi fatti a piro (a balaustro) di Casteldurante,che avrebbe contribuito a rinnovare l’assetto scenografico della loro antica aromateria.
Come operatore di primo piano all’interno della professione, Giuseppe Fulco rivestirà la carica di consigliere della maestranza nel 1620 quando verrà chiamato a stimare il vasellame di fra Celestino, al secolo Giuseppe Cappellino che - divinu spiritu electus- aveva deciso di abbandonare storte e alambicchi per vestire il saio degli Scalzi. 
Ricoprirà la stessa mansione nel 1626, quando diverrà unico gestore dell’attività dopo la scomparsa del fratello Mario. Tra i mille pezzi elencati per origine e forma nell’inventario stipulato in questa circostanza i manufatti faentini costituiscono, non a caso, il nucleo più consistente dell’enumerazione: 223 maioliche, antichemoderne, decorate a trofei su fondo turchino. Una moda che ebbe così fedeli e ostinati estimatori in Sicilia da aver vincolato a questo registro ornamentale le fornaci peninsulari ancor prima di ancorare allo stesso tema quasi tutte le officine isolane del ‘600. Nello stesso documento, gli addetti alle stime del corredo figulino, non curandosi di citare il luogo di fabbricazione di un cilindro con “l’insegna di Andrea Doria”, l’eroe di Lepanto che aveva contribuito nel 1571 a liberare le coste italiane dalle scorrerie turche, né di annotare la provenienza di una ventina di albarelli con l’emblema del leone - figura d’indubbia ascendenza alchemica assunto dai Fulco come insegna della loro bottega – sono favorevolmente sollecitati da una coppia di vasi durantini: n° 2 balli di castellofatti a piro grandi, cui è riservata l’invidiabile valutazione di un’oncia e 28 tarì nonostante l’annotata smozzicaturaal labbro che condiziona l’aspetto di uno di essi. Dovrebbe trattarsi delle sopravvissute realizzazioni piriformi ordinate nel 1605 delle quali conosciamo le misure espresse nella polizza di commissione: di tundo et de larghicza palmi tri(circonferenza max. cm.77, 25) et de alticza palmo uno et un quarto(cm. 32,18 ca.). Ma a rendere concreto e intrigante il dato archivistico intervengono le relazioni che esso suggerisce nell’esame di un reperto di collezione privata pubblicato nel catalogo di una Mostra allestita nel Palazzo Ducale di Urbania nel 19821. La forma a balaustro e le dimensioni di quest’opera coincidono perfettamente con la descrizione offerta dal nostro inventario; l’emblema del leone dipinto nel suo medaglione, associato alle iniziali G. F. che lo affiancano, trova simmetrie riscontrabili nella farmacia di Giuseppe Fulco. 
Il vaso, che reca la scritta in Castello Durante / per mastro simono / a di vinte 5 d giuni 1562, potrebbe non solo aver fatto originariamente parte del corredo palermitano, ma essere anche utilizzato come modello dell’ordinazione candiana. Né possono stupire, nella considerazione del clima di generale difesa delle tradizioni e attaccamento al passato che accomuna la categoria degli speziali, la lunga sopravvivenza nella bottega e l’adozione da parte dei proprietari di un modello vecchio di otto lustri per un nuovo ordinativo. Il fenomeno si verifica a Palermo in diverse circostanze compresa quella in cui il mercante Castruccio nel 1553 si era impegnato d’importare maioliche faentine per lo speziale Galeno Castrogiovanni che possedessero le caratteristiche formali delle bornìedella farmacia Boeri, allestite diversi anni prima. D’altronde le numerose realizzazioni figuline rinascimentali citate negli inventari del ‘600, è indice della lunga vita degli stessi vasi negli scaffali, soprattutto quando si tratta di esemplari poco usati, “da mostra” come la seducente opera esposta a Urbania, custoditi e riguardati dagli speziali alla stregua di oggetti antichi che contribuivano ad accrescere il prestigio della loro attività. 
Occorre avvertire che le notizie d’archivio non riescono a sciogliere del tutto il nodo dell’ubicazione del reperto durantino nel ricco armamentario di Giuseppe Fulco. Egli lascia l’ultima traccia della sua esistenza in una ricevuta consegnata nel 1630 al rampollo di un principe passato alla storia per l’efferato “delitto d’onore” che lo vide coinvolto nell’uccisione della figlia, la baronessa di Carini, illecitamente innamorata. 
Secondo i calcoli cui occorre affidarsi in assenza di dati storici, per avere la ventina d’anni necessari all’esercizio della professione quando mastro Simone allestì il vaso, il nostro speziale, cui si intendono attribuire le iniziali G. F.,tracciate sulla cornice del medaglione dedicato al leone rampante, dovrebbe essere nato intorno al 1540 ed essere scomparso quindi ad un’età che superava di poco gli ottant’anni. Una longevità che rende - seppure al limite - percorribile l’ipotesi dell’appartenenza dell’opera al suo corredo rafforzata com’è dalla valutazione di alcuni nessi suggeriti dal contesto. 
I documenti di un’altra bottega palermitana gestita dalla famiglia Boeri potrebbero infatti agevolare l’indagine. 
La presenza tra il 1562 e il ’63 di Andrea Boeri a Casteldurante2, dove si era recato per rifornirsi di 400 vasi nella fornace di Angelo e Ludovico Picchi s’iscrive, nella pratica delle acquisizioni vascolari dirette e senza intermediazione di mercanti, come un episodio che si avvia ad assumere contorni meno incerti. La mancanza d’indizi relativi ai manufatti ordinati a Casteldurante nell’inventario redatto in seguito alla morte del padre nel 1587 sembra una diretta conferma dei dati dell’Archivio di Stato di Urbania dai quali si evince che, nonostante la caparra di novanta scudi d’oro ricevuta, i Picchi non consegnarono mai al committente palermitano i vasi che si erano impegnati di fabbricare3. Ma ciò che più interessa la nostra ipotesi è la coincidenza della data del viaggio di Andrea con quella segnata nell’opera di Simone da Colonnello. Coincidenza che offre la possibilità di pensare che, in seguito ai malintesi avuti con i Picchi, lo speziale siciliano si fosse rivolto proprio a questo maestro per un’eventuale commissione affidatagli dall’esordiente collega Giuseppe Fulco, col quale la famiglia Boeri intratteneva rapporti d’amicizia. 

Un’altra questione sollevata dall’inventario Fulco riguarda la dozzina d’albarelli con emblema di leone, testimonianza delle periodiche integrazioni del vecchio armamentario della bottega, dei quali non è dichiarato il luogo di fabbricazione. Se la citazione inventariale viene riferita al gruppo di reperti secenteschi custoditi nella Galleria Regionale della Sicilia, nei quali è stata individuata la stessa insegna4, la coincidenza rispecchierebbe l’andamento del mercato e le mutazioni degli indirizzi commerciali verificatesi agli inizi del XVII secolo, periodo che vide l’immigrazione di alcune qualificate maestranze calatine a Burgio e a Palermo e il risveglio delle fabbriche della Sicilia occidentale artisticamente intente alla rielaborazione dei modelli tardo-rinascimentali. 
Se così stanno le cose, Paolo, figlio di Giuseppe Fulco, destinato a prolungare l’attività della vecchia spezieria fondata dal nonno Mario nella prima metà del ‘500, non si sarebbe allontanato dalle esigenze estetiche della famiglia acquistando gli albarelli palermitani decorati nel primo quarto del ‘600 da Filippo Passalacqua, un esperto e consapevole maestro che, seguendo lo spirito del suo tempo, ebbe il merito di cogliere l’opportunità di una nuova interpretazione delle abusate panoplie. In esse, tra le celate, gli scudi e i tamburi frequentati nella precedente stagione creativa dalle fabbriche più rinomate, il leone si associa alle figure ermetiche e ai simboli magici circolanti all’interno di una credenza - oscura e inquietante - basata sulla fascinazione di geroglifici, caratteri, lettere, parole non interpretabili, teorizzata nei libri – ben noti in Sicilia - di Filippo Teofrasto Paracelso, convinto assertore del potere benefico dei segni tracciati, di concerto con determinate congiunzioni astrali, su materiali e metalli opportunamente manipolati. 

NOTE
1 cfr. La ceramica rinascimentale metaurense, 1982, Cat. a cura di C. Leonardi; pag. 58- 59, fig. 39
2 Andrea Boeri, speziale e non mercante come era stato ritenuto, acquistava nel 1571 una gran quantità di rose da passare agli alambicchi nella spezieria che, assieme allo zio e al padre Pietro, gestiva nella centrale via della Bandiera
3 Urbania, Arc. Not. rog. Aurelio Colonnelli n. 119, c.113 v, 23 /12/1562; Urbania, Arch. Com. Arch. Ant., B 29, n.1, 6 Giugno 1563
4 Cfr. Aromataria, Maioliche da Farmacia e d’uso privato, Cat. a cura di R. Daidone, Palermo 21/10,2005- 8/1 2006; pagg. 58 – 60 - 61 






mercoledì 18 aprile 2018

I PERDUTI PAVIMENTI DELL’ORATORIO DEI BIANCHI


Rosario Daidone 


L’oratorio palermitano della “Compagnia del Crocifisso sotto titolo de’ Bianchi”, costruito nel 1542 sopra la Chiesa di Santa Maria della Vittoria là dove prima era una porta della cittadella fortificata della Kalsa, di recente restituito alla pubblica fruizione dopo un meritorio lavoro di restauro che ha salvato dalla perdita definitiva un monumento carico di storia, tra le caratteristiche architettoniche e decorative, possedeva due pavimenti maiolicati di notevole interesse artistico. Il primo, fabbricato nel 1765 per il “camerone degli aggiontamenti”, denominato “Salone Fumagalli” in nome del pittore Gaspare che, dall’ottobre del 1776 al febbraio del ’77 ne decorò “ a secco” le pareti; il secondo, quello dell’oratoriovero è proprio, la sala con l’altare in cui la migliore aristocrazia cittadina biancovestita, votata al soccorso spirituale dei condannati a morte, assisteva alle funzioni religiose. 
Il camerone riservato alle riunioni è vasto cento metri quadrati e fu piastrellato con duemila e duecento mattoni stagnati “della misura di once dieci di quadro” per ordine di Don Gabriele Lancillotto Castelli, Principe di Torremuzza, uno dei quattro deputatidi fabbrica della Reale e Primaria Compagnia,e su disegno dell’architetto-sacerdote Giuseppe Fama Bussi, noto per i progetti e l’assistenza ai lavori di molti edifici cittadini, particolare estimatore dei pavimenti maiolicati. 
Dell’opera non esiste più nulla, se non i documenti notarili di ordinazione e pagamento ai decoratori di mattoni Nicola Sarzana e Angelo Gurrello, all’aiutante Giuseppe Cosentino e al muratore Giovanni Martinez addetto alla collocazione1. Dal momento che non conosciamo del manufatto né la figura né l’impegno artistico, la perdita, se pur grave, non appare così dolorosa come quella dell’impiantito dell’oratoriovero e proprio di cui restano immagini e descrizioni che lo accreditano come una delle più grandi e magnifiche realizzazioni del Settecento siciliano, paragonabile, per bellezza e accensione di colori, soltanto al pavimento esistente nella Chiesa di San Benedetto di Caccamo che allo stesso Sarzana sembra debba essere intestato.
Percorso il piano terra senza particolari emozioni, salito lo scalone, completato per intervento dell’architetto Fama Bussi nel 1753 con i lavori affidati ai marmorari Ignazio e Leonardo Musca e attraversato il breve spazio dell’antioratorio, originariamente in marmo bianco, varcato uno dei due ingressi, gli occhi vagano alla ricerca degli smalti e dei colori dell’oratorio, oggetto di dotte esegesi e di ricorrenti citazioni. Un mare di mattonelle di terracotta moderne indica il naufragio in cui galleggiano le poche originali piastrelle rimaste. Soltanto la fascia perimetrale con ornamentazione di tralci azzurri sembra essersi in parte salvata. Il resto è testimonianza dell’incuria e dello stato di abbandono in cui è stato lasciato il monumento per tanti anni.
Il mantello pavimentale dell’oratorio, di cui esiste, unica testimonianza, una riproduzione fotografica nell’archivio della Publifoto, eseguita intorno al 1978 in bianco e nero, si giovava di tre distinti registri concentrici. Il primo, staccato dai muri perimetrali da una semplice cornice blu e gialla, insisteva su una decorazione a tralci azzurri che, sul bianco latteo del fondo, si concludeva attorno a quattro scudi con busti di personaggi classici. Il secondo registro, meno denso del precedente, si distingueva per gli ornamenti policromi di foglie e tralci che si dipartivano dagli angoli in cui quattro vasi ricolmi di verdura erano affiancati da coppie di aquile contrapposte. Preludio e antifona nel dispiegarsi delle ampie volute ad una spessa cornice mistilinea a quattro lobi di minuta decorazione che racchiudeva, al centro, la rappresentazione di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto. A giudicare dalle dimensioni dell’opera e dalla pallida testimonianza fotografica, la scena doveva essere molto più ricca e articolata di quella del riquadro con lo stesso soggetto affrescato, intorno al 1794, da Giuseppe Testa sulle pareti dell’ambiente, nel contesto di altri episodi biblici legati al tema della morte violenta culminanti nell’affresco della Decollazione di San Giovanni Battista eseguito da Antonino Mercurio. 
La centralità e l’enfasi assegnata alla scena di Mosè nell’ambiente destinato alle funzioni religiose, al di là di ogni interpretazione ricercata, sembra sottolineare la particolare importanza che gli illustri committenti riservavano al tema miracoloso per motivi autoreferenziali da ricercare nell’esaltazione del compito di redenzione dei reprobi che la Compagnia, secondo pratiche e ricette consolidate, rendeva “disposti a ben morire” per unanime volere e mandato delle autorità civili e religiose. 
E’ difficile dire se la pompa ambientale era adatta a suscitare nell’animo dei confrati raccolti in preghiera sentimenti di paradisiache anticipazioni o dolorose sensazioni della perdita della bellezza del mondo terrestre. E’ certo però che il fondo bianco del pavimento su cui si stagliavano incoraggianti verzure, il nitore delle pareti esaltato dalla intensa luminosità delle finestre, l’odore dell’incenso, il canto liturgico all’altare, erano inno ed elogio alla bellezza della vita onestamente vissuta. Da qui la Compagnia traeva convinzioni e conforto per l’alto e pur penoso compito di riconciliare gli abietti con l’eterno, fare scaturire l’acqua della salvezza dall’aridità delle ignobili esistenze dei condannati.
In preparazione del volume che resta ancor oggi alla base degli studi sulla maiolica siciliana, il pavimento, ancora intero, lo vide, con l’editore Sellerio, Antonino Ragona nel 1975. L’appassionato studioso calatino, che ne rimase entusiata, non ancora a conoscenza del documento che attesta la presenza del Sarzana nella realizzazione dell’impiantito del salone degli “aggiontamenti”, lo attribuì coerentemente al più celebrato decoratore del Settecento. Nella sua interezza poterono ammirarlo anche altri studiosi. 
Maria Concetta Ruggeri Tricoli, in una analisi che non tiene conto degli interventi del Fama Bussi, documentati nell’Oratorio dal 1753 al 1766, e della presenza del Sarzana, attivo a Palermo fino al 1786, data della sua morte, fornì alcune interpretazioni simboliche dell’opera originali ma non del tutto condivisibili attribuendone il disegno all’architetto Emanuele Cardona e l’esecuzione a fabbriche napoletane di fine Settecento2.
Le scelte decorative operate, le analogie riscontrabili con altre opere dello stesso genere di fabbricazione locale e i contrasti esistenti con i manufatti partenopei arrivati a Palermo, come il pavimento della galleria di Palazzo Comitini firmato da Nicola Giustiniani nel 1761 e soprattutto la misura siciliana delle mattonelle residue, convincono invece a considerare l’impiantito di esecuzione palermitana e cronologicamente precedente l’altra realizzazione maiolicata che arricchiva il contiguo salone in seguito affrescato dal Fumagalli, ora pavimentato con piastrelle bianche, volutamente anonime ad esaltazione della policromia delle pareti. Pur non essendo ancora disponibili documenti che indichino la data di fabbricazione del pavimento, può intanto costituire un indizio il recente reperimento della relazione di misura e stima dell’architetto Fama Bussi per alcuni lavori di ripristino nell’edificio, registrata agli atti del notaio Domenico Gaspare Sarcì il primo febbraio 1753. In essa, tra gli altri lavori, come il rifacimento delle volte degli ambienti, si raccomanda ai maestri murari di “sbordere e ripostare li mattoni stagnati con ogni diligenza e poi assettarli in sazio di calcina e gesso secondo la forma del disegno che tengono li medesimi mattoni”. Il documento3, testimoniando l’esistenza di pavimenti maiolicati nell’edificio prima di quella data, potrebbe, dal momento che il lavoro non prevedeva un pagamento di manodopera, fare riferimento a piccoli lavori di restauro per rimozione e riassetto di poche piastrelle. Il riferimento all’opera perduta del Sarzana, che dal tono delle raccomandazioni l’architetto sembra tenere in gran conto, pare non debba essere del tutto escluso. D’altronde, in assenza di documentazione specifica, si ritiene particolarmente interessante per la collocazione cronologica dell’opera che abbelliva l’oratoriola verifica delle dimensioni delle singole tessere. In essa, superato il retaggio secentesco della piccola misura di 14,5 centimetri di lato (quadretti), ma non del tutto affermato il “sesto napoletano” (cm. 21,5), che già distingue, assieme alle mattonelle di Palazzo Comitini, la fornitura della sala delle riunioni, è puntualmente testimoniato l’uso di quadrittonidi 17, 5 centimetri caratteristici della prima metà del ‘700. 
Occorre avvertire il lettore che, in occasione della Mostra sul “terzo fuoco”, allestita nel Museo di Palazzo Abatellis nel 1997, i documenti trascritti in calce furono connessi al pavimento dell’oratorio.L’esame diretto dell’ambiente, reso finalmente possibile dalla recente apertura al pubblico del monumento, evidenziando vistose incongruenze tra i dati forniti dalle carte notarili, le reali misure dell’impiantito e le dimensioni dei mattoni originali residui, orienta invece il riferimento al perduto pavimento dell’attiguo “salone Fumagalli” per il quale estensione di superficie e numero di mattonelle necessarie alla pavimentazione, nelle dimensioni indicate dagli atti, perfettamente coincidono. La verifica sembra essere sfuggita agli operatori del restauro come lascia pensare la vecchia attribuzione ancora presente nei pannelli didattici esibiti ad illustrazione generale degli interventi e, nel caso dei pavimenti, a giustificazione della loro perdita, causata dagli usi impropri e dall’usura del tempo.
In verità, prima che l’edificio venisse ceduto nel 1987 dalla Curia Arcivescovile alla Regione, i locali subirono diverse utilizzazioni. Vi si celebrò qualche matrimonio intorno agli anni Cinquanta, vi si impiantò una scuola confessionale negli anni Settanta. Dall’immaginabile travaglio le opere in maiolica erano tuttavia uscite quasi indenni. Lo smembramento dovette avvenire in tempi più recenti, il guasto dovrebbe rientrare nella generale distrazione e nella poca cura riservate alle opere d’arte della città. Che i pavimenti dell’Oratorio dei Bianchi potessero infatti essere oggetto d’interesse storico e artistico se ne accorsero con anticipo e tempestività d’intervento i ladri. Le misure di tutela sono arrivate, ancora una volta, in ritardo. Eppure, come ha ricordato di recente il direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Salvatore Settis, i bandi a tutela e salvaguardia dei beni culturali nel Mezzogiorno risalgono ai “retrivi” Borboni a partire dal 1755 e trovano solenne riaffermazione nell’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. “Un principio fondamentale”, come sottolinea Settis, “caso forse unico al mondo, su cui poggia la Repubblica.”
Difficile dire in quale villetta, in quale cucina o bagno di città sia finita la fastosa realizzazione che ha lasciato soltanto la tristezza di una bava fotografica, dove siano finite la figura di Mosé e dei compagni sbigottiti, i vasi ricolmi di foglie di quercia e le aquile derubate.
L’afflusso del cospicuo numero di visitatori all’Oratorio ristrutturato, che verrà adibito, come adeguato contenitore, all’esposizione di alcune opere d’arte che il vicino Museo Regionale non riesce a mettere a disposizione del pubblico per mancanza di spazi espositivi del Palazzo Abatellis, incoraggia i recuperi programmati poiché è segno del crescente interesse dei cittadini per la loro città. 
L’aggressione, sferrata in questi mesi dai predatori di cimeli alla residua numerazione civica dell’Ottocento, indica che ormai del patrimonio artistico cittadino si sta raschiando il fondo. Occorrono immediati interventi di salvaguardia e di restauro perchè lo spirito di rassegnazione, che ancora aleggia intorno alla perdita dei beni culturali residui nelle antiche vie e nelle piazze palermitane, venga del tutto sconfitto nella consapevolezza che la nostra città, come detentrice di uno dei più vasti e caratteristici centri storici di tutta Europa, se ne riservi l’onere della riconquista e l’onore culturale che ne deriva. 




NOTE 

2) M. C. Ruggeri Tricoli, L’architettura degli oratori, Palermo 1995

4) S. Settis, Il Bello dei Borboni, in “Il Sole-24 Ore”, 19 gennaio 2003.













ARCHITETTI E MATTONARI PALERMITANI


I PAVIMENTI ISTORIATI DEL ‘700


di Rosario Daidone

In gran parte perduti i rivestimenti di maiolica che adornavano gli edifici siciliani, l’arte della decorazione pavimentale del ‘700, piuttosto che ai reperti - pochi e frammentari – si affida alle forniture e alle preziose descrizioni rintracciate nei documenti d’archivio. 
La notorietà raggiunta a Palermo dalla famiglia Sarzana (o Zarzana) - Carlo, Nicola, il genero Andrea Gurrello e Carlo junior - poggia sull’allestimento di una lunga serie di pavimenti destinati agli edifici pubblici, ai palazzi nobiliari e alle ville barocche che - smanie della villeggiatura di patrizi e cavalieri e financo dei conventi femminili della città - a gara si costruirono appena fuori le mura nel corso del XVIII secolo.
A Carlo, la cui attività è ancora poco nota, si potrebbe attribuire il singolare intervento eseguito nella cripta delle Repentiteda poco casulamente venuta alla luce. In essa i Santi Francesco e Chiara, effigiati a grandezza naturale ai piedi della croce in un mosaico di mattoni di diverse misure, sovrastano il piccolo altare dell’ultimo quarto del XVII secolo adornato di figurazioni vegetali che solo in parte riescono ad attenuare la drammaticità dell’andito buio fornito degli essiccatoi per i cadaveri delle prostitute convertite. Le croci che affiancano l’altare, inusitatamente formate da bipartite mattonelle da pavimento, tradiscono la precarietà dell’insieme e la riutilizzazione, anche nell’impiantito, di elementi modulari destinati ad altri edifici. Segue di almeno un decennio il lavoro nell’oratorio di Santa Cita consegnato dal mattonaro nel 17021. Qui il tappeto maiolicato mancante di una parte, seppure nelle condizioni di degrado causato dall’uso, rivela la fantasia e il gusto dell’autore. Costituito da piastrelle di cm. 17,5 di lato che a gruppi di quattro formano serti di fiori di fantasia, esso si estendeva con ampia bordura dal terrazzo, dove arriva la scala in pietra di Billiemi di accesso all’edificio, fino al locale interno dell’antoratorio e alla cappella del Crocifisso. Ideale raccordo con gli alberi e i fiori del giardino interno sottostante, le ornamentazioni suggeriscono sensazioni di colorata frescura che predispongono al godimento dei candidi stucchi del Serpotta (1685-88) nella chiesa coerentemente fornita di un intarsiato pavimento marmoreo di Gioacchino Vitagliano (1699). Scevra di riferimenti iconografici e studiate simbologie, l’opera assume il ruolo esclusivo di un festoso apparato ornamentale, tipico dei pavimenti palermitani tradizionali, adatto a qualsiasi destinazione ambientale. La decorazione si giova della velocità esecutiva del disegnatore e della padronanza dei moduli trattati. Reso vivace dalle pennellate gialle sul verde più o meno intenso del carnoso fogliame, il disegno in bruno di manganese rimarca i particolari dopo la stesura dei colori come in genere si nota nelle opere pittoriche all’acquarello.
Allo stesso maestro dovrebbero ricondurre anche gli interventi negli oratori di S. Mercurio (1715) e dei Pellegrini (1719) dai quali non può essere però esclusa la mano di altri operatori che nella prima metà del secolo incoraggiavano la moda e sostenevano la richiesta pressante dei mattoni dipinti: decoratori più o meno noti come Gabriele Pavone, Giuseppe e Antonio Gurrello o Giorgio Milone che nel 1715 firmava i pannelli con santi del campanile della Chiesa Madre di Carini. 
L’opera di Santa Cita non raggiunge la struttura unitaria che, intorno alla metà del secolo, conosceranno le illustrazioni più impegnative del figlio Nicola (nato nel 1701)il quale non sembra però discostarsi dal gusto paterno nelle prime realizzazioni autonome. Fitomorfiche tessiture barocche simili a quelle di Santa Cita si trovano infatti nel battistero della SS. Annunziata di Caccamo, reliquato del pavimentoche adornava interamente la Chiesa, allestitonel 1755 da Nicola destinatario di calorose attenzioni e singolari donativi riservatigli in occasione del suo viaggio nella cittadina per curarne la messa in opera *. 
Uno dei primi lavori eseguiti da Nicola sotto le direttive di un architetto è quello che nel 1747 vide impegnato l’ingegnieroGiovan Battista Cascione nella fornitura dei disegni per i rivestimenti pavimentali di Casa Guzzardi nella piazza Bologna. La formazione specifica del mattonaro, maturata nel laboratorio paterno estraneo alla lavorazione dell’argilla, trova testimonianza nell’acquisto presso gli stazzoni della città del cotto da dipingere. La smaltatura come lavoro specialistico si affermava perentoriamente nel ‘700 a garanzia di migliori risultati artistici. 
I mattoni metà bianchi e metà dipinti a fioroni color turchino, destinati nel 1751 alla Chiesa del Collegio di Maria di Torretta, conquistavano anche la provincia alla nuova moda. La fama raggiunta in tutta l’Isola dal Sarzana, operatore nelle arti liberali che poteva fregiarsi del titolo di don, è testimoniata dall’ordinativo di alcuni pavimenti historiatirichiesti nel ‘52 dall’Arcivescovo di Messina con l’intermediazione di un illuminato intenditore qual era il principe di Torremuzza Francesco Paternò Castelli. 
Vivente ancora il padre, l’impresa familiare acquistava autonomia sul mercato attraverso l’acquisizione diretta dell’argilla che Nicola affidava a un socio stazzonaro per la prima lavorazione. Materia da cavare, come di consueto, nei terreni ai margini del fiume Oreto, ricca di ossidi ferrosi e d’intrusi che aiutano la ricognizione e lo studio dei reperti. 
L’esecuzione di un bucolico impiantito, disegnato nel ’52 dall’architetto Francesco Ferrigno per l’appartamento di un’aristocratica badessa della famiglia Filangeri nel distrutto Monastero dei Sette Angeli, afiorami, uccellini e paesaggio, indica il transito agli scenari paesaggitici che, ampi e articolati, culmineranno nel pavimento dell’oratorio dei Bianchi e in quello - ricco di simboliche vedute - della Chiesa di San Benedetto di Caccamo, ancora privo di documenti archivistici, ma di sicura attribuzione sarzaniana. La nave allegorica che è dipinta al centro della navata riesce a superare i marosi come afferma la scritta che l’accompagna, Concutitur non obruitur,riferita ai travagli della vita, ma non alla perdizione .
Dopo la scomparsa di Carlo, sostituito dal pittore Emanuele Gulotta ingaggiato nel 1753, si rende ancor più evidente l’intervento degli architetti. L’ingegniere Rosario L’Avvocata, attraverso un impegno notarile in cui per la prima volta appare il nome del figlio di Nicola (di nome Carlo come il nonno), curava per il barone Armao di Santo Stefano di Camastra la realizzazione di un pavimento “a onda di mare” che accogliesse un paesaggio centrale. Già in uso nel pieno ‘600, questa tipologia modulare, formata da mattoni che una diagonale distingue nella doppia colorazione bianca e verde o bianca e blu, interessava non soltano le abitazioni private, ma anche i luoghi sacri, come la chiesa palermitana di Porto Salvo, disposti a rinunciare all’uso tradizionale del marmo o a sostituirlo con i rivestimenti di maiolica più accessibili e non meno appariscenti dei “mischi”. 
A rendere evidente il potere esercitato dai Sarzana sul mercato interviene la notizia relativa ad una società di stazzonariche, assumendo nel ’54 il pittore Antonio Celestri, si vedevano ostacolata da don Nicola l’apertura di una “vetrina” nella via dello Stazzonerichiesta al Senato permantenerci le mostre dei loro prodotti ad utilità del pubblico degli acquirenti. Non si configura come fatto occasionale che uno degli architetti più in voga, Giovan Battista Cascione2, si rivolgesse proprio ai Sarzana per corredare di pavimenti dipinti il palazzo dei Marchesi Santacroce, uno dei più grandiosi della città, in costruzione nella via Maqueda. L’enorme quantità delle maioliche richieste dal cantiere convinceva il direttore dei lavori di rivolgersi nel 1758 anche alle fabbriche napoletane in grado di sfornare mattoni di dimensioni più grandi rispetto a quelle praticate nell’Isola. Un incentivo per Nicola a provarsi nella più impegnativa “misura di Napoli” (cm. 20X20 ca.) che gli consentiva di operare contemporaneamente per conventi e palazzi baronali. La realizzazione, insieme al genero Gurrello e in società col vecchio maestro Milone, del progetto dell’architetto Salvatore Attinelli per la Chiesa di Sant’Angelo dei Linari (1759), l’esecuzione di altri estesi impiantiti della casa Gravina, per il palazzo di Alia dei marchesi Santacroce e per il Convento di San Francesco di Paola ispirati, questi ultimi, alle pitture del soffitto di Vito D’anna, documentano il successo e l’incremento delle richieste che si estendevano anche a lontani committenti come la Chiesa di San Giuliano di Petralia Sottana dove, come era d’uso, don Nicola si recava di persona nel ’60 per sorvegliare la collocazione di un complesso pavimentale ideato dall’architetto Inguaggiato. 
Realizzate in quest’anno le opere per il refettorio di Santa Chiara e il parlatorio del monastero delle suore benedettine di S. Rosalia, che si trovava nel quartiere dei figuli dello Stazzone, i Sarzana, oltre a lavorare ancora per l’enorme palazzo di Via Maqueda recentemente restaurato, affidavano alla fornace migliaia di mattoni destinati alla riedificazione di abitazioni private che sarebbe lungo elencare. Né dovette più costituire motivo di eccessiva preoccupazione la presenza in città dei maestri napoletani come gli Attanasio decisi a propagandare e a vendere direttamente in Sicilia le loro riggiole. Delle fabbriche partenopee si servirono tuttavia diversi architetti palermitani del periodo: nel Palazzo Santacroce il pavimento dellagalleriafu infatti allestito nel 1761 da Nicola Giustiniano; palazzo Ganci mantiene ancora intatto il pavimento napoletano della sala degli specchiin cui Luchino Visconti girò le scene del ballo del Gattopardo; di Andrea Gigante si conservano nella Galleria Regionale della Sicilia i progetti per i pavimenti di villa Camastra del principe di Trabia realizzati a Napoli. 
Nel ’63 una digressione che attesta la perizia di don Nicola nella manipolazione degli smalti è costituita dall’allestimento di enormi vasi di una particolare tonalità di turchino destinati alla flora della casena di Malaspina che egli si impegnava di fornire, benvisti dall’architetto Cascione, in società con l’esordiente maestro Calogero Pecora divenuto in seguito direttore della fabbrica di vasellame che il duca Francesco Oneto aveva annesso alla sua villa3
Un pavimento istoriato rivestiva la sala dell’Oratorio dei Bianchi riservata alle riunioni dei confrati della buona morte ancora priva delle decorazioni parietali del pittore Gaspare Fumagalli (1777). Per l’ambiente, vasto cento metri quadrati, i duemila e duecento mattoni occorrenti, della misura napoletana dionce dieci di quadrovoluta dall’architetto Fama Bussi, furono ordinati a Nicola Sarzana nel 1765 dal Principe di Torremuzza, deputato della Reale Compagnia, particolare estimatore delle maioliche4. Dal momento che non si conoscono né le figurazioni del manufatto né l’impegno artistico riversatovi, la sua perdita non appare tanto grave quanto quella dell’opera maiolicata dell’oratorio vero e proprio di cui resta una riproduzione fotografica in bianco e nero nell’archivio della Publifotoe alcune descrizioni che l’accreditano come una delle più interessanti realizzazioni del Settecento. Il tappeto, di cui sopravvivono la bordura e poche mattonelle originali che si perdono dopo il restauro dell’edificio in un mare di cotto moderno, si articolava in tre distinti registri concentrici che mettevano in risalto l’historia di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto. A giudicare dalla testimonianza fotografica, la narrazione veterotestamentaria era molto più ricca e articolata di quella che con lo stesso soggetto Giuseppe Testa dipingerà sulle pareti nel 1794 allegandola alle scene insistenti sul tema della morte violenta culminanti nell’affresco della Decollazione del Battista di Antonino Mercurio. 
La centralità e l’enfasi assegnata al fatto biblico, al di là di ogni interpretazione ricercata, sembra sottolineare la particolare importanza che i committenti riservavano alla miracolosa invenzione dell’acqua. Evidente appare l’ufficio della redenzione dei reprobi che la Compagnia dei Bianchi, secondo pratiche e ricette consolidate, rendeva disposti a ben morire per volere e mandato delle autorità civili e religiose. Per il resto è difficile dire se il concerto degli ornati era adatto a suscitare nell’animo dei potenti confrati sentimenti di paradisiache anticipazioni o provocare nei poveri condannati dolorose sensazioni della perdita del mondo terreno. Di fatto le incoraggianti verzure e l’intensa luminosità del pavimento erano inno alla bellezza ed elogio della vita onestamente vissuta. Da qui, più che dalle scene parietali, la Compagnia attingeva convinzioni e conforto per l’alto e remunerato compito di riconciliare gli abietti con l’Eterno.
L’opera ancora intatta fu visitata con l’editore Sellerio da Antonino Ragona nel 1975 che l’attribuì coerentemente al maestro Nicola. Nella sua originale condizione poterono ammirarla anche altri esegeti che, ignorando gli interventi nell’edificio del Fama Bussi (documentati dal 1753 al 1766) e la presenza dei Sarzana nella sala Fumagalli, finirono con l’assegnarne il progetto all’architetto Emanuele Cardona e l’esecuzione a fabbriche napoletane di fine Settecento5
Le caratteristiche del cotto, le scelte decorative operate e i raffronti con i manufatti partenopei confermano l’attribuzione del lavoro ai Sarzana che dovettero impegnarvisi alcuni anni prima dell’intervento compiuto nella sala degliaggiontamenti. La determinazione cronologica dell’apparato è incoraggiata dalle dimensioni delle tessere residue, quadrittonidi 17,5 centimetri di lato, fabbricate nel periodo in cui non si era ancora affermato in Sicilia il sesto più grande che caratterizzava il pavimento precedente. 
Che i mattoni dei Bianchi, come quelli degli altri pavimenti smembrati, potessero essere oggetto di un avventato collezionismo non era sfuggito ai saccheggiatori. Eppure, “i bandi a tutela e salvaguardia dei beni culturali nel Mezzogiorno risalgono ai “retrivi” Borboni a partire dal 1755 e trovano solenne riaffermazione nell’articolo 9 della Costituzione”.6
E’ riferibile a Nicola Sarzana, che partecipava nel 1766 alla formazione degli statuti degli stazzonari, l’annotazione dell’architetto Giovanni Del Frago durante i lavori eseguiti nel palazzo del mercante genovese Ambrogio Gazzino sul Cassaro (1768), spese per aver fatto il disegno in grande del mattonato di camerone con spese di cartone e pittore7. Essa costituisce una prova esplicita della consolidata collaborazione artistica tra decoratori e architetti che si incaricavano di affidare ai mattonari, liberi di definire variazioni e dettagli, lo sviluppo dei progetti e di accettare o rifiutare l’opera finita8.
Nel ’72, in società con un produttore di cotto, i 4000 mattoni “a onda di mare” che l’architetto Francesco Di Miceli richiedeva ai Sarzana per i corridoi e i balconi del palazzo Mannino indicano la funzione di passe par toutassegnata all’elegante decorazione modulare, elemento funzionale persino nel prospetto laterale della Cattedrale di Palermo e rivestimento di corridoi e logge di numerosi palazzi e ville suburbane. 
Le ultime notizie sull’attività dei Sarzana sono contenute negli atti notarili del 1773 che vedono Nicola impegnato nella riscossione di alcune somme dovutegli per lavori pregressi. Dopo la scomparsa del genero Gurrello e del figlio Carlo, il vecchio mattonaro, non più in grado di lavorare a partire dal 1775, ormai vedovo e in condizioni economiche di assoluta necessità, abitava in una modesta casa d’affitto fino al giorno della morte sopravvenuta il 20 dicembre del 17869.
Cessata l’attività della bottega, si attrezzavano a soddisfare le declinanti commissioni i vecchi concorrenti. Il documento della fornitura di Angelo Gurrello - fratello dello scomparso Andrea - alla marchesa di Santa Croce: mattoni stagnati bianchi a tarì 10 il centinaio euna festina di valenza per la cappella della casena di Bellolampo a tarì 11, appare di non poca importanza. Il prezzo deiquadrittoni rossi (di semplice terracotta) stabilitoa tarì 3 e grani 10 il centinaio,offre infatti la possibilità di determinare il valore commerciale assegnato in questo periodo alla smaltatura e alla decorazione pittorica. 
I pavimenti bianchi fabbricati nel 1777 per la Marchesa, sorella del Duca di Sperlinga, come quelli destinati nel 1780 alla casa del principe d'Aragona, sembrano decretare la crisi degli istoriati e la riconquista del mercato da parte degli stazzonicon i loro rutilanti mattoni “ad attacco” destinati a nuovi gusti e alle più economiche pretese dei 1500 baroni, dei 142 principi e dei 178 marchesi che alla fine del secolo affollavano l’Isola. 

note
1) ASDP, vol. 6, c. 50, 26 ottobre 1702 
Agli atti del not. Cristoforo Cavarretta esiste apoca di once 27, tarì 14 e grani 16 a Mastro Carlo Zarzana per attratto e magisterio ut dicitur per detto contraente avere fatto l’ammadonato nell’antoratorio di detta Ve.le Compagnia e sono per infrascritta lista del seguente tenore: 
in primis once 21 d’ammadonato di valenza a quadretti pagati per mano di Giovanni Antonio Lugaro a ragione di once 1 e tt. 6 la canna; 
per portatura di madoni tt. 18; 
per mattoni restati seu rigirati del primo disegno once 1 tt. 8; 
per giornati 7 di mastro muratore once 1 e tt. 25; 
per giornati 7 di manovale tt. 25 e g. 20; 
per giornati 7 del picciotto tt. 15; 
per calcina, rina e gisso once 1 tt. 25. g. 6. 
In tutto once 27.14.16). Governatore della Compagnia era Giovanni Caradonna e i consiglieri Giacomo Piscetti e Gaspare Benfatta.
2) La proposta di S. Caronia Roberti (L’architettura del Barocco) dell’architetto Giganti come autore dei disegni, già messa in dubbio da A. Blunt ( Barocco siciliano, 1986), appare definitivamente superata dall’invenzione dei numerosi documenti d’archivio in nostro possesso che assegnano i disegni e la direzione dei lavori all’architetto G.B. Cascione 
3) Cfr. R. Daidone, La Ceramica Siciliana, Palermo 2005
4) ASP, Not. Sarcì Domenico Gaspare, Vol. 10236, f. 634, 20 aprile 1765
5) M. C. Ruggeri Tricoli, L’architettura degli oratori, Palermo 1995
6) S. Settis, Il Bello dei Borboni, in “Il Sole-24 Ore”, 19 gennaio 2003.
7) Il documento relativo mi è stato fornito dall’Arch. Natale Finocchio al quale rinnovo i ringraziamenti per la preziosa segnalazione
8) Dalla storia della maiolica palermitana non sembrano emergere notizie di collaborazione più esplicite di questa, anche se l’intervento dell’architetto non pare debba essere escluso nel pavimento e nella spalliera che i Lazzaro prepararono nel 1591 per il palazzo senatoriale.
9) Atti dell’Archivio parrocchiale di S.Giovanni de' Tartari, vol. def. anno 1785-1786, atto n° 127, f. 9 v. Anno Domini 1786 ind. V die vigesima decembris Don Nicolaus Zarzana (sic)sponsus quondam D. Rosae aetatis annorum octuagintaquinque repentina morte correptus omnibus Sacramentis corroboratus hodie obiit. Eius corpus de licentia llustrissimi et reverendissimi Episcopi Vicarji Generali de Vanni in sella gestatoria depurtatum sepultum fuit in Ecclesia conventus S. Mariae Angelorum, ut dicitur alla Gancia.

LA VIGNICELLA DEI GESUITI


di Rosario Daidone
Secondo quanto scrive Nino Basile nella sua “Palermo Felicissima” (1929, pag. 140) i Gesuiti avevano acquistato la VIGNICELLA nel 1560 e a poco a poco ingrandirono questo possedimento sino a formarne una vasta residenza adibita a luogo di villeggiatura. 
Insediatisi a Palermo nel 1550, non avevano ancora iniziato la costruzione della Casa Professa (1564), ma la loro presenza era già forte e incisiva, soprattutto nell’ambito dell’istruzione superiore che divenne il loro compito precipuo. Tra il 1550 e il 1560 l’ordine raggiunse in tutta la Sicilia la sua massima espansione. Un potere culturale ed economico conseguito attraverso l’acquisto di numerosi feudi che si prolunga fino al 1767 quando Carlo III di Borbone decide espulsione dal regno della Compagnia e nel 1773 il papa Clemente XIV ne sancisce la soppressione. 
Nel portico dell’antico edificio della Vignicella, a sinistra di chi entra direttamente dall’esterno attraverso le due scale a forbice si trova una parete ricoperta da un enorme pannello maiolicato sovrastato da un affresco che rappresenta il pergolato di una vigna, da cui il sito prende nome, su cui campeggia la figura di un pavone con le penne spiegate, simbolo del Cristo trionfante. Più in basso, sopra il vano che secondo il Basile accoglieva una fontana, un’altra porzione affrescata rappresenta un angelico concertino. Un esile cartiglio ben delineato dall’autore della maiolica, che originariamente accoglieva l’impresa del committente, è interessato da un altro piccolo affresco con l’immagine consueta di Santa Rosalia. 
Il nastro, che si snoda in eleganti ondulazioni a coronamento del pannello maiolicato, reca un epitaffio che invita i suonatori ad esibirsi in concerti e musiche soavi adatte a non turbare gli animi e a non distrarre il pensiero degli astanti immersi nel raccoglimento. La rigorosa considerazione che ben più grave di ogni altra perdita è la divagazione e il distoglimento della mente dal pensiero divino conclude l’iniziale accorata sollecitazione: ” Deh per pietate formate il suon suave che non si desti l’alma a Dio diletta che sovra ogni altro duol miseria grave”.Alcune parole della scritta (L’alma a Dio diletta), mancando le tessere smaltate originali, sono state riprese in pittura a tempera direttamente sull’intonaco. 
L’invito alla levità musicale scritto sui mattoni lascia pensare che al posto dell’affresco col concerto da camera tenuto dagli angeli doveva trovarsi un tema simile dipinto dal maiolicaro. L’ambiente di destinazione dell’opera sembra dunque essere sempre stato quello ecclesiastico e religioso, un luogo di comune meditazione di cui conventi e monasteri sono forniti. L’dea di un ruscello che in maniera fittizia confluisse e defluisse da una vera e propria fontana non più esistente, potrebbe allontanare l’ipotesi di una committenza laica dell’opera smentita dal carattere simbolico della rappresentazione paesaggistica. Basterebbe soltanto una ordinazione diversa da quella gesuitica a giustificare la rimozione dell’emblema dal cartiglio.
Il pannello ha subito nel tempo varie manomissioni. Le aree affrescate, compresa la più ampia sotto il soffitto a volta con la rappresentazione del pergolato, si configurano come evidenti sostituzioni di porzioni maiolicate cadute o piuttosto mai arrivate in situ. Se appare comprensibile, dopo l’acquisizione dei Gesuiti, la cancellazione dello stemma sostituito con il piccolo affresco di Santa Rosalia, meno chiari si rivelano i motivi che causarono la manomissione delle altre porzioni maiolicate e in particolare quella sostituita dall’ affresco degli angeli musicanti.
Sembra comunque poco probabile che il pannello sia stato ordinato per essere destinato alla misura e alla forma della parete in cui si trova. Il senso stesso della scritta che invita a non turbare il silenzio della meditazione mal si adatta ad un luogo aperto, che seppure destinato ai religiosi, è immediatamente accessibile dalle scale esterne ed esposto ai rumori provenienti dalla strada. A conforto di un trasferimento di sede avvenuto nel passato, probabilmente a non molta distanza di tempo dalla sua originale collocazione, come lascia pensare l’integrazione puntuale della scritta, si possono allegare i numerosi errori di messa in opera, soprattutto per quanto riguarda la parte destra del manufatto. Qui, oltre alla presenza di porzioni disarticolate di animali sparse per la campagna, le mattonelle che rappresentano un alto cipresso occupano il posto in cui dovevano essere collocate le tessere che completano il disegno della montagna innevata che sovrasta il gruppo di case costituito da massicci edifici a torre, castelli e costruzioni dallo strano tetto orientaleggiante a forma di cono. L’ambiente in cui, tra gli alti cipressi pascolano due cervi ben delineati (uno vistosamente fuori posto) è attraversato da un corso d’acqua di cui restano soltanto due anse ricche di pesci interrotte dal vano murato, che secondo il Basile ospitava la fontana.
In diverse parti le mattonelle mancanti sono sostituite da intonaco. Un’ampia mancanza sulla parte sinistra di chi osserva, poiché non esiste nella riproduzione fotografica pubblicata dal Basile, deve considerarsi di non antica formazione come pure, rispetto alla stessa foto del 1929, la dilatazione della lacuna sulla parte destra in basso del rivestimento maiolicato.
Nonostante l’esaltazione artistica che ne fece l’autore della “Palermo Felicissima”, il manufatto, mai caduto sotto l’interesse degli studiosi della materia, considerato dal Basile come opera di fabbricazione locale, ad un attento esame rivela piuttosto caratteristiche formali forestiere che non escludono la provenienza campana e in particolare le fabbriche vietresi che numerose maioliche esportarono in Sicilia nella seconda metà del ‘500. All’Italia peninsulare conducono infatti i colori adoperati dal decoratore e la maniera della rappresentazione che non ricade nell’esperienza iconografica isolana.
Per quanto riguarda il periodo di fabbricazione un’ attribuzione alla seconda metà del ‘500 ben si adatta allo stile dell’opera e alla cultura allegorica sottesa nell’insieme. La misura piccola delle tessere (cm. X cm. ), scelta tecnicamente consigliata alle destinazioni parietali, è tipica del periodo. 
Più chiari riferimenti si potrebbero cogliere da una visita meno frettolosa al monumento e dall’esame più attento dell’argilla e dello smalto o almeno dall’analisi del verso di qualche mattonella caduta che generalmente conducono alla determinazione delle fornaci. 

IL PAVIMENTO DELLA BADIA DI CACCAMO

IL PAVIMENTO DELLA BADIA 

Di Rosario Daidone

La Chiesa del Monastero delle benedettine di Caccamo, fondato nella seconda metà del XVI secolo, vanta, secondo gli studi del settore della maiolica, il possesso del pavimento più interessante per valore artistico e integrità di conservazione del Settecento siciliano. 
L’opera poté mantenere nel tempo quasi intatte le sue condizioni primigiene grazie al fatto di trovarsi in un luogo solo occasionalmente aperto ai fedeli, quasi esclusivamente riservato alla preghiera e alle funzioni religiose delle suore. Le parti meglio conservate, dove i colori si rivelano nella loro originaria freschezza, sono naturalmente le zone perimetrali e l’area del coro meno sottoposte all’usura del calpestio che causò invece irreparabili danni in una breve porzione vicino la porta d’ingresso in cui volute e motivi foliati accompagnano un nastro verde con una sintetica scritta proemiale – resa quasi illegibile- riferita alle anime dei defunti, “Absorbet ne absorbeant”, la Chiesa le accoglie affinché le tenebre non le divorino. 
Superati i pilastri che reggono il matroneo, un intatto paesaggio marino con veliero scosso dalla tempesta è chiamato a rappresentare, attraverso la legenda “Concutitur non obruitur” i travagli di cui la stessa Chiesa soffre e la certezza di non esserne travolta. La decorazione che l’affianca prende le mosse dalle ampie volute che inglobando e superando il paesaggio arrivano alla tomba delle suore. Ornamenti a cartocci, foglie e festoni rococò retti da putti mirabilmente disegnati di scorcio con visione dal basso, fiori e uccelli, contrastanti motivi di vita e di morte, si dipartono dalla lapide bianca del sacello datato 1701 che è il soggetto primo e il cardine intorno a cui ruota visivamente e concettualmente tutta l’opera. Prima di arrivare al coro un canestro colmo di frutti affiancato da volatili, natura morta di rara bellezza, costituisce il coronamento del tappeto. Medaglioni di personaggi classici agli angoli estremi rappresentano il trascorrere veloce del tempo, il trionfo della morte sulla fama già annunciata dalle trombe che i putti reggono nel festoso scenario centrale. Le vanità terrene e la gloria, rappresentate dalle prosopopee dei tronfi personaggi coronati d’alloro, si infrangono nella didascalia del paesaggio che si trova ai piedi dell’altare maggiore,“Felicitatis Omen”, ellissi di un indubbio presagio di felicità, punto d’arrivo, meta del viaggio spirituale, certezza di ogni beatitudine. 
Si tratti della rappresentazione marina col veliero in avaria, del paesaggio fluviale col ponte e dell’ambiente lacustre col sole che vi si rispecchia, l’acqua, simbolo del riscatto spirituale, è il tema dominante dell’opera. E sono brani di un unico discorso allegorico sia le vedute paesaggistiche che le espressioni letterali del pavimento in cui concettualmente si inserisce l’epitaffio della sepoltura delle benedettine MONIALES OBLATAS S.P./ BENEDICTI CIVITATIS CACCA/BI VITA FUNCTAS MORS NON/ SEPARAT: SED HOC UNO/SOCIAT IN TUMULO/ UNAQUE CONDECO/RAT CORONA/1701. La morte non separa le defunte suore oblate del Santo Patriarca Benedetto della città di Caccamo, ma le associa in questo unico sacello e insieme le fregia con un’unica corona. Esplicitazioni non prive di orgoglio cenobitico che, affidando alla storia l’appartenenza secolare alla cittadinanza caccamese, sottolineano l’adesione spirituale delle suore alla regola di San Benedetto evocata anche dalla corona, emblema, insieme alla stella, del loro ordine. 
La democratica decisione capitolare di ultilizzare un solo ipogeo che accogliesse i corpi di tutte le monache, dalla più dotta e autorevole alla più umile delle converse, unite nella morte, (come lo erano state nella preghiera e nel lavoro durante la vita) motivò come si è detto l’intera decorazione che può idealmente essere divisa in quattro zone tra loro collegate: le ampie volute dell’ingresso, il paesaggio con la nave, gli ornamenti centrali che affiancano la lastra tombale del 1701, la parte antistante l’altare maggiore con altro paesaggio e lo stesso coro arricchito da altri medaglioni di personaggi “laureati”.
Il pavimento ha una lunghezza di metri…..e una larghezza di….metri. Circa diecimila furono le tessere impiegate a rivestire l’intera superficie, mattonelle formate, come quelle dell’Oratorio dei Bianchi, nella misura palermitana di “once dieci di quadro” (circa cm. 17,5X17,5) adoperate prima che si affermasse definitivamente, verso la fine del secolo, il sesto napoletano dei quadrettoni di cm. 21 X 21. Il cotto, particolarmente rosso per l’abbondanza di ossidi di ferro, fornito dagli stazzoni palermitani dislocati lungo la foce dell’Oreto, presenta le caratteristiche dell’argilla a grana media, ricca di intrusi, estratta dalle rive dello stesso fiume.
Quando venne decisa la collocazione dell’opera maiolicata, nel suolo della chiesa di Caccamo esistevano, oltre alle quattro lastre tombali del XVII secolo poste ai piedi degli altari lungo l’unica navata, anche la sepoltura centrale delle monache con lapide marmorea a basso rilievo datata 1701 e vi poggiavano, come oggi, i due pilastri che reggono, contrapposto all’altare maggiore, il matroneo munito di una singolare cancellata in ferro battuto. Da parte dell’architetto che approntò il disegno da ingrandire nella bottega del pittore di maiolica e, attraverso lo spolvero, riportare sui mattoni accostati e numerati prima della seconda cottura, occorreva dunque studiare un coerente insieme decorativo che prendesse in considerazione, insieme alla forma geometrica della navata, le interruzioni del mantello pavimentale causate dalla presenza delle lapidi e dei gradini degli altari laterali. Si giustifica così il ricorso all’adozione della bordura di foglie e frutti corrente lungo i muri perimetrali dell’ambiente e quindi ad una partizione dell’opera che prevedeva, secondo le intenzioni della committenza, di accordare, non soltanto visivamente, l’intero ornato alla centralità della tomba del 1701 delimitata ed esaltata da una doppia cornice da cui si dipartono gli ornamenti vegetali, i putti e i motivi di accompagnamento. L’invadenza degli scalini sull’ornato venne risolta con l’assunzione di cornici delimitanti formate da rosoni e festoni verticali che agevolano l’inserimento degli stessi altari nella continuità longitudinale dell’impiantito. Non vennero invece prese in considerazione le aree occupate dai pilastri che reggono il matroneo che risultano perfettamente inserite nel contesto decorativo. Il concetto di adattamento all’esistente, di cui bisogna tener conto per non incorrere in errori cronologici, previde anche la scansione dei motivi che con ininterrotta articolazione prospettica segnano il percorso verso il coro scandito dalla serie di didascalie disposte nella logica susseguenza di un metaforico viaggio spirituale. 

I colori della superficie smaltata stimolano sensazioni di calda solarità. Il verde ramina e il giallo di cromo dominanti insieme al blu cobalto accompagnano la fluidità del disegno che non mostra segni di ripensamenti o di stanchezza. Le espressioni delle figure, di piccole o grandi dimensioni che siano, rivelano la sapienza del decoratore nelle sfumature cromatiche e la sua maturata esperienza. I volatili, tutti riconoscibili nella loro varietà aviaria, il gufo, i pappagalli, il picchio si pongono in naturali atteggiamenti alle prese con le bacche del fogliame o con innocui serpentelli. Forti gli artigli dell’aquila, più delicate le zampe di altri uccellini che svolazzano tra le fronde e le volute. La natura morta del canestro di vimini intrecciati, con frutti e fiori, devota offerta del mondo contadino, ha la forza di un dipinto su tela in cui si misurarono i pittori più celebrati del secolo precedente. 
Il mestiere del decoratore si rivela soprattutto nella pittura dei paesaggi, piccoli quadri nel grande affresco dell’insieme. Nella veduta della nave gli spettatori della riva sembrano, tranne qualcuno, non curarsi del pericolo che corre il veliero, privo dell’albero di poppa, ma ancora capace di dominare i flutti. Negli altri paesaggi fluviali o lacustri uomini e donne si conducono alle rive con strumenti musicali. L’atmosfera calda e festosa per il sole splendente che si riflette nell’acqua, il conforto offerto dalle abitazioni vicine, rievocano i classici idilli e la pace della campagna cantata dai poeti dell’Arcadia. L’ambiente è tipico della moda rococò, non soltanto per l’evidenza delle sue icone e l’insistenza delle conchiglie, ma piuttosto per l’articolazione robusta delle volute, l’arditezza degli scorci, l’amore per il paesaggio, l’agilità della prospettiva. 
La superficie decorata non ammette pausa di respiro, lo sguardo non riesce a dominare per intero l’intreccio del disegno, l’attenzione si sofferma su una rosa, su di una grottesca verde di non immediata percezione. Non a caso il visitatore, ignorando l’insieme di non semplice dominio visivo, è rapito dai particolari del pavimento, un putto, e non sempre il più bello per arditezza di scorciato, è riprodotto su tutti i libri di maiolica, il veliero è diventato l’icona dell’opera. Mi soffermerei con maggiore soddisfazione su altri particolari, magari sull’espressione di una grottesca, presenza subliminare, dipinta nelle sfumature del verde diluito; sul volatile che ghermisce il serpente, sulla serietà espressiva del gufo, ma soprattutto sull’eleganza di alcuni pastori che si accompagnano a personaggi femminili dai lunghi colli in innocenti e aurorali intese di canti. La sinfonia del complesso, espressione culturale e visiva degli entusiasmi del secolo XVIII, è un inno mozartiano alla vita. La morte, ricordata da alcuni simboli e dal freddo marmo delle tombe, se non lontana è deprivata dalla paura e dall’angoscia che di solito l’accompagnano. Tutto sapientemente converge nella scritta trionfante del coro “Omen Felicitatis”, felicità di chi, come le oblate, dopo un’esistenza spesa nella preghiera, nello studio e nel lavoro, davanti alla tomba allontanano il terrore della fine, anzi, nella consapevolezza del perdono, cantano nella morte l’inno alla rinascita attraverso i colori primaverili e le scene incoraggianti del pavimento della loro chiesa. 
L’assenza di una documentazione specifica, da tempo infruttuosamente ricercata negli archivi, che non consente l’indicazione certa dell’autore e della data di esecuzione del pavimento, ha alimentato una serie di ipotesi che non riescono tuttavia a smentire quella indicata dagli studi tradizionali. Essi, tenendo conto della documentata presenza del mattonaro palermitano Nicola Sarzana a Caccamo nel 1751 per un sopralluogo in preparazione del perduto pavimento della Parrocchia dell’Annunziata, attribuiscono l’opera della Badia allo stesso maestro, indiscusso protagonista della pittura pavimentale del XVIII secolo1. In tal senso appaiono probabili anche le motivazioni storiche addotte dalle prime esegesi cui appartengono le ricerche e gli studi di Alessandro Giuliana Alaimo (1956) che legava la commissione dell’opera allo spirito di emulazione della badessa pro tempore e ai suoi rapporti di parentela col parroco Don Filippo Gallegra che al Sarzana aveva riservato una munifica e calorosa accoglienza. 
Come accadeva nella maggior parte degli edifici appartenenti alle comunità religiose non sempre fornite di adeguate risorse economiche, gli interventi architettonici nella chiesa, tra aggiunzioni e trasformazioni dettate dai mutamenti di gusto, si prolungarono negli anni e arrivarono allo stato in cui oggi il monumento si trova intorno 1748, come suggerisce la data che si legge sul suo portale. Poiché gli abbellimenti della Badia si estesero fino al 1756 con la realizzazione degli stucchi affidati a Bartolomeo Sanseverino, si può prudentemente aggiungere che la posa del pavimento possa essere avvenuta subito dopo questa data.Non è una pura coincidenza che gli archivi palermitani registrino nel periodo compreso tra il 1751 e il 1760 diversi contratti stipulati dai Sarzana con i produttori di cotto (Angelo Gurrello, Giuseppe Cappadonia, Giuseppe Attardi) che prevedevano esclusive e pluriennali forniture di un gran numero di mattoni grezzi da decorare. La frequenza delle commesse ricevute dalla bottega giustifica l’assunzione nello stesso periodo di diversi aiutanti come il pittore Emanuele Gulotta e il maestro Giuseppe Cosentino particolarmente esperto nella manipolazione dello stagno. Le forniture al Barone Armao di Santo Stefano di Camastra, all’Arcivescovo di Messina e al palazzo palermitano dei Guzzardi, rappresentano soltanto una parte della fervente attività svolta da Nicola Sarzana intorno agli anni in cui il maestro si misurava nella realizzazione del pavimento dell’Oratorio dei Bianchi (1753 ca,) legata all’opera della nostra Badia da numerose affinità artistiche. 
Il trasporto delle piastrelle da Palermo dovette avvenire via mare fino a Termini Imerese e da qui, per impervi viottoli, a dorso di mulo, sino a destinazione. Un itinerario via terra, con tappe intermedie ad Altavilla Milicia e a Termini Imerese era stato invece seguito qualche anno prima dal Sarzana che, atteso, a Caccamo era arrivato a cavallo in vista dell’allestimento del pavimento della parrocchia dell’Annunziata. I fragranti donativi di cui il maestro fu premurosamente fatto oggetto sono prova del rispetto e dell’ammirazione di cui godeva e dell’amore per l’arte dei cittadini di Caccamo decisi, come attestano altri pregevoli monumenti della città, a dotarsi delle opere prodotte dagli artisti più celebrati del periodo. Come per altri manufatti della stessa complessità il pavimento della Badia dovette essere montato sotto la sorveglianza di Nicola o del figlio Carlo che, insieme al Gurrello, collaborarono all’allestimento dell’opera come si nota in alcuni particolari dell’ornato che non appartengono alla stessa mano. Una mattonella accidentalmente staccatasi dal contesto sotto la balaustra del coro rivela il sistema di numerazione adottato per la posa in opera. Essa reca nel verso i numeri 6 e 49 tracciati in manganese ad indicare la fila di appartenenza e il posto in essa occupato; l’incavo al centro serviva alla maggiore aderenza della tessera posata con malta composta da sabbia, calce e gesso che, nella lentezza dell’essiccazione, consentisse spostamenti e correzioni. Eppure due medaglioni con le prosopopee di personaggi classici che si trovano agli angoli estremi del coro risultano erroneamente montati. Il fatto lascia pensare, più che ad una inammissibile distrazione originaria, ad una manomissione dovuta a lavori di muratura eseguiti nel tempo intorno all’altare maggiore.

LA BOTTEGA SARZANA
La notorietà raggiunta in Sicilia dalla famiglia Sarzana (o Zarzana) - Carlo, Nicola, il genero Andrea Gurrello e Carlo junior - poggia sulla realizzazione di una lunga serie di pavimenti destinati agli edifici pubblici, alla rifondazione dei palazzi nobiliari e alle ville barocche che a gara si costruirono nel corso del XVIII secolo. 
A Carlo, la cui attività è ancora poco nota, si potrebbe attribuire il singolare intervento eseguito a Palermo nella cripta delle Repentiteda poco casulamente venuta alla luce. In essa i Santi Francesco e Chiara, effigiati a grandezza naturale ai piedi della croce in un mosaico di mattoni di diverse misure, sovrastano il piccolo altare dell’ultimo quarto del XVII secolo adornato di figurazioni vegetali che non riescono ad attenuare la drammaticità dell’andito buio fornito degli essiccatoi per i cadaveri delle prostitute convertite. Le croci che affiancano l’altare, inusitatamente formate da bipartite mattonelle da pavimento, tradiscono la precarietà dell’insieme e la riutilizzazione, anche nell’impiantito, di elementi modulari destinati ad altri edifici. 
Segue di almeno un decennio il lavoro nell’oratorio di Santa Cita consegnato dal mattonaro nel 17021. Qui il tappeto maiolicato, seppure nelle condizioni di degrado causato dall’uso, rivela la fantasia e il gusto dell’autore. Costituito, come quello di Caccamo, da piastrelle di cm. 17,5 di lato che a gruppi di quattro formano serti di fiori di fantasia, esso si estendeva con ampia bordura dal terrazzo, dove arriva la scala in pietra di Billiemi di accesso all’edificio, fino al locale interno dell’antioratorio e alla cappella del Crocifisso. Ideale raccordo con gli alberi e i fiori del giardino interno sottostante, le ornamentazioni alimentano sensazioni di colorata frescura che predispongono al godimento dei candidi stucchi del Serpotta (1685-88) nella chiesa coerentemente fornita di un intarsiato pavimento marmoreo di Gioacchino Vitagliano (1699). Scevra dei riferimenti iconografici e delle studiate simbologie che interessano il pavimento di Caccamo, l’opera assume il ruolo di un generico apparato ceramico adatto a qualsiasi destinazione ambientale. La decorazione si giova della velocità esecutiva del disegnatore e della padronanza dei moduli trattati bene appresa dal figlio Nicola. Reso vivace dalle pennellate gialle sul verde più o meno intenso del carnoso fogliame, il disegno in bruno di manganese rimarca i particolari dopo la stesura dei colori come in genere si nota nelle opere pittoriche all’acquarello. 
Gli interventi negli oratori palermitani di S. Mercurio (1715), dei Pellegrini (1719) e delle Dame (1741), testimoniano di altre botteghe e altri operatori che nella prima metà del secolo incoraggiavano la moda e sostenevano la richiesta pressante dei mattoni dipinti: decoratori più o meno noti come Gabriele Pavone, o Giorgio Milone che nel 1715 firmava i pannelli con santi del campanile della Chiesa Madre di Carini, Lorenzo Gulotta, figlio o fratello del più noto Emanuele che nel 1741 forniva il pavimento istoriato dell’Oratorio delle Dame al Giardinello (Vedi reliquato davanti all’altare che presenta alcune affinità d’impianto con quelli della nostra Badia), Giuseppe e Antonio Gurrello che nel 1750 venne ingaggiato per fabbricare in loco un pavimento a “onda di mare” per la parrocchia di Caccamo forse mai eseguito. 
L’opera di Carlo Sarzana a Santa Cita non raggiunge la struttura unitaria che, intorno alla metà del secolo, conosceranno le illustrazioni più impegnative del figlio Nicola (nato nel 1701) il quale non sembra però discostarsi dal gusto paterno nelle prime realizzazioni autonome. Fitomorfiche tessiture barocche simili a quelle del celebre oratorio palermitano si trovano infatti nel battistero della SS. Annunziata di Caccamo, reliquato del pavimento che adornava interamente la Chiesa, allestito nel 1752 da Nicola. 
Uno dei primi lavori eseguiti dal maestro sotto le direttive di un architetto –che occorrerebbe individuare per quanto riguarda Caccamo- è quello che nel 1747 vide impegnato l’ingegnieroGiovan Battista Cascione nella fornitura dei disegni per i rivestimenti pavimentali di Casa Guzzardi nella piazza Bologni. La formazione specifica del mattonaro, maturata nel laboratorio paterno estraneo alla lavorazione dell’argilla, trova testimonianza nell’acquisto presso gli stazzoni della città del cotto da dipingere. La smaltatura come lavoro specialistico si affermava per la prima volta nella bottega palermitana a garanzia dei migliori risultati artistici perseguiti. 
I mattoni metà bianchi e metà dipinti a fioroni color turchino, destinati nel 1751 alla Chiesa del Collegio di Maria di Torretta, conquistavano anche la provincia alla nuova moda. La fama raggiunta in tutta l’Isola dal Sarzana, operatore nelle arti liberali che poteva fregiarsi del titolo di don, è testimoniata dall’ordinativo di alcuni pavimenti historiatirichiesti nel ‘52 dall’Arcivescovo di Messina con l’intermediazione di un illuminato intenditore qual era il principe di Torremuzza Francesco Paternò Castelli. 
Vivente ancora il fondatore, l’impresa Sarzana acquistava autonomia sul mercato attraverso l’acquisizione diretta dell’argilla che Nicola affidava a un socio stazzonaro per la prima lavorazione. Materia da cavare, come di consueto, nei terreni ai margini del fiume Oreto, ricca di ossidi ferrosi e d’intrusi che aiutano la ricognizione e lo studio dei reperti. 
L’esecuzione di un bucolico impiantito, progettato nel ’52 dall’architetto Francesco Ferrigno per l’appartamento di un’aristocratica badessa della famiglia Filangeri nel distrutto Monastero palermitano dei Sette Angeli, a fiorami, uccellini e paesaggio, indica il transito della bottega agli scenari paesaggitici che, ampi e articolati, culmineranno nel pavimento dell’oratorio dei Bianchi e con maggiore consapevolezza in quello della Badia di Caccamo. 
Dopo la scomparsa di Carlo, sostituito dal pittore Emanuele Gulotta ingaggiato nel 1753, si rende ancor più evidente l’intervento degli architetti. L’ingegniere Rosario L’Avvocata, attraverso un impegno notarile in cui per la prima volta appare il nome del figlio di Nicola (di nome Carlo come il nonno), curava per il barone Armao di Santo Stefano di Camastra la realizzazione di un pavimento “a onda di mare” che accogliesse un paesaggio centrale. Già in uso nel pieno ‘600, questa tipologia modulare, formata da mattoni che una diagonale in manganese distingue nella doppia colorazione bianca e verde (o bianca e blu) interessava non soltanto le abitazioni private, ma anche i luoghi sacri disposti a rinunciare all’uso tradizionale del marmo e a sostituirlo con i rivestimenti ceramici non meno appariscenti dei “mischi” con i quali la maiolica nel Settecento doveva fare i conti. In tal senso si rivela particolarmente “moderna” la scelta della pavimentazione ceramica da parte delle suore benedettine di Caccamo e la rinuncia al marmo già presente nelle lapidi a mischio della loro badia. 
A rendere evidente il successo riscosso e il potere esercitato dai Sarzana sul mercato interviene la notizia relativa ad una società di stazzonariche, assumendo nel ’54 il pittore Antonio Celestri, si vedevano ostacolata da don Nicola l’apertura di una “vetrina” nella via dello Stazzone richiesta al Senato per mantenerci le mostre dei loro prodotti ad utilità del pubblico degli acquirenti
Non si configura come fatto occasionale che uno degli architetti più in voga, Giovan Battista Cascione2, si rivolgesse proprio a loro per corredare di pavimenti dipinti il palazzo dei Marchesi Santacroce, uno dei più grandiosi della città, in costruzione nella via Maqueda. L’enorme quantità delle maioliche richieste dal cantiere convinceva il direttore dei lavori di rivolgersi nel 1758 anche alle fabbriche napoletane in grado di sfornare mattoni di dimensioni più grandi rispetto a quelle praticate nell’Isola. Un incentivo per Nicola a provarsi nella più impegnativa “misura di Napoli” (cm. 21X21 ca.) immediatamente dopo la fornitura di Caccamo che gli consentisse di vincere la concorrenza partenopea. La realizzazione, insieme al genero Gurrello e in società col vecchio maestro Milone, del progetto dell’architetto Salvatore Attinelli per la Chiesa di Sant’Angelo dei Linari (1759), l’esecuzione di altri estesi impiantiti della casa Gravina, per il palazzo di Alia dei marchesi Santacroce e per il Convento palermitano di San Francesco di Paola ispirati, questi ultimi, alle pitture del soffitto di Vito D’Anna, documentano il successo e l’incremento delle richieste che si estendevano anche a lontani committenti come la Chiesa di San Giuliano di Petralia Sottana dove don Nicola, così come aveva fatto per gli interventi a Caccamo, si recava di persona nel ’60 per sorvegliare la collocazione del complesso pavimentale ideato dall’architetto Inguaggiato. 
Realizzate in quest’anno le opere per il refettorio di Santa Chiara e il parlatorio del monastero delle suore benedettine di S. Rosalia, che si trovava nel quartiere dei figuli dello Stazzone, i Sarzana, oltre a lavorare ancora per l’enorme palazzo Santa Croce- Sant’Elia, da dove sono misteriosamente scomparse, dopo il recente restauro, le scene mitologiche del pavimento napoletano, affidavano alla fornace migliaia di mattoni destinati alla riedificazione di abitazioni private che sarebbe lungo elencare. Né dovette più costituire motivo di eccessiva preoccupazione la presenza in città dei maestri napoletani come gli Attanasio decisi a propagandare e vendere direttamente in Sicilia le loro riggiole. Delle fabbriche partenopee si servirono tuttavia diversi architetti del periodo: nel Palazzo Santacroce il pavimento della galleria, mutilato e reso anonimo dall’incuria,fu infatti allestito e firmato nel 1761 da Nicola Giustiniano; palazzo Ganci mantiene ancora intatto il pavimento napoletano della sala degli specchiin cui Luchino Visconti girò alcune scene del Gattopardo; di Andrea Gigante si conservano nella Galleria Regionale della Sicilia i progetti per i pavimenti ancora esistenti di villa Camastra del principe di Trabia realizzati a Napoli. 
Nel ’63 una digressione manifatturiera che attesta la perizia di don Nicola nella manipolazione degli smalti è costituita dall’allestimento di enormi vasi di una particolare tonalità di turchinodestinati alla flora della casena di Malaspina che egli si impegnava di fornire, benvisti dall’architetto Cascione, in società con l’esordiente maestro Calogero Pecora divenuto in seguito direttore della fabbrica di vasellame dipinto a “terzo fuoco” che il duca Francesco Oneto aveva annesso alla sua villa3.
Un discorso a parte merita il pavimento istoriato che rivestiva la sala dell’Oratorio dei Bianchi riservata alle riunioni dei confrati della buona morte ancora priva delle decorazioni parietali del pittore Gaspare Fumagalli (1777). Per l’ambiente, vasto cento metri quadrati, i duemila e duecento mattoni occorrenti, della misura napoletana ormai sperimentata, voluta dall’architetto Fama Bussi, furono ordinati a Nicola Sarzana nel 1765 dal Principe di Torremuzza, deputatodella Reale Compagnia,particolare estimatore delle maioliche4.Dal momento che non si conoscono né le figurazioni del manufatto né l’impegno artistico riversatovi, la sua perdita non appare tanto grave quanto quella dell’opera maiolicata dell’oratoriovero e proprio di cui resta una riproduzione fotografica in bianco e nero nell’archivio dellaPublifotoe alcune descrizioni che l’accreditano come una delle più interessanti realizzazioni del Settecento. Il tappeto, di cui sopravvivono la bordura e poche mattonelle originali nella misura consueta di cm. 17X17 che si perdono, anche qui dopo il restauro dell’edificio, in un mare di cotto moderno, si articolava in tre distinti registri concentrici che mettevano in risalto l’historia di Mosè che fa scaturire le acque nel deserto. A giudicare dalla testimonianza fotografica, la narrazione veterotestamentaria era molto più ricca e articolata di quella che con lo stesso soggetto Giuseppe Testa dipingerà sulle pareti nel 1794 allegandola alle scene insistenti sul tema della morte violenta culminanti nell’affresco della Decollazione del Battista di Antonino Mercurio.
La centralità e l’enfasi assegnata al fatto biblico, al di là di ogni interpretazione ricercata, sembra sottolineare la particolare importanza che i committenti riservavano alla miracolosa invenzione dell’acqua. Evidente appare l’ufficio della redenzione dei reprobi che la Compagnia dei Bianchi, secondo pratiche e ricette consolidate, rendeva disposti a ben morire per volere e mandato delle autorità civili e religiose. Per il resto è difficile dire se il concerto degli ornati era adatto a suscitare nell’animo dei potenti confrati sentimenti di paradisiache anticipazioni o provocare nei poveri condannati dolorose sensazioni della perdita del mondo terreno. Di fatto le incoraggianti verzure e l’intensa luminosità del pavimento erano, come nell’opera di Caccamo, inno alla bellezza ed elogio della vita onestamente vissuta. Da qui, più che dalle scene parietali, la Compagnia attingeva convinzioni e conforto per l’alto e remunerato compito di riconciliare gli abietti con l’Eterno. 
L’opera ancora intatta fu visitata con l’editore Sellerio da Antonino Ragona nel 1975 che l’attribuì, insieme al pavimento di Caccamo, al maestro Nicola. Nella sua originale condizione poterono ammirarla anche altri esegeti che, ignorando gli interventi nell’edificio dell’architetto Fama Bussi (documentati dal 1753 al 1766) e la presenza dei Sarzana nella sala Fumagalli, finirono con l’assegnarne il progetto all’architetto Emanuele Cardona e l’esecuzione a fabbriche napoletane di fine Settecento5
Le caratteristiche del cotto, le scelte decorative operate e i raffronti con i manufatti partenopei confermano l’attribuzione del lavoro ai Sarzana che dovettero impegnarvisi alcuni anni prima dell’intervento compiuto nella sala degli aggiontamenti dello stesso edificio. La determinazione cronologica dell’apparato è incoraggiata anche qui dalle dimensioni delle tessere residue, quadrittonidi 17,5 centimetri di lato, fabbricate nel periodo in cui non si era ancora affermato in Sicilia il sesto più grande che caratterizzava il pavimento della sala Fumagalli. 
Che i mattoni dei Bianchi, come quelli di Palazzo Sant’Elia e di tutti i pavimenti siciliani smembrati, potessero essere oggetto di un avventato collezionismo non era sfuggito ai saccheggiatori. Eppure, “i bandi a tutela e salvaguardia dei beni culturali nel Mezzogiorno risalgono ai “retrivi” Borboni a partire dal 1755 e trovano solenne riaffermazione nell’articolo 9 della Costituzione”.
E’ riferibile a Nicola Sarzana, che partecipava nel 1766 alla formazione degli statuti degli stazzonari, l’annotazione dell’architetto Giovanni Del Frago durante i lavori eseguiti nel palazzo del mercante genovese Ambrogio Gazzino sul Cassaro (1768),spese per aver fatto il disegno in grande del mattonato di camerone con spese di cartone e pittore7. Essa costituisce, anche per il pavimento di Caccamo, una prova esplicita della consolidata collaborazione artistica tra decoratori e architetti che si incaricavano di affidare ai mattonari, liberi di definire variazioni e dettagli, lo sviluppo dei progetti e di accettare o rifiutare l’opera finita8.
Nel ’72, in società con un produttore di cotto, i 4000 mattoni “a onda di mare” che l’architetto Francesco Di Miceli richiedeva ai Sarzana per i corridoi e i balconi del palazzo Mannino indicano la funzione dipasse par toutassegnata all’elegante decorazione modulare, elemento funzionale persino nel prospetto laterale della Cattedrale di Palermo e rivestimento di corridoi e logge di numerosi palazzi e ville suburbane. 
Le ultime notizie sull’attività dei Sarzana sono contenute negli atti notarili del 1773 che vedono Nicola impegnato nella riscossione di alcune somme dovutegli per lavori pregressi. Dopo la scomparsa del genero Gurrello e del figlio Carlo, il vecchio mattonaro, non più in grado di lavorare a partire dal 1775, vedovo e in condizioni economiche di assoluta necessità, chiusa la prestigiosa bottega, si ridusse a condividere con altri una modesta casa d’affitto nella via Trappetazzi fino al giorno della morte sopravvenuta il 20 dicembre del 17869
Cessata l’attività dei Sarzana, si attrezzavano a soddisfare le declinanti commissioni siciliane i vecchi concorrenti. Il documento della fornitura di Angelo Gurrello - fratello dello scomparso Andrea - alla marchesa di Santa Croce: mattoni stagnati bianchi a tarì 10 il centinaio euna festina di valenza per la cappella della casena di Bellolampo a tarì 11, appare di non poca importanza. Il prezzo deiquadrittoni rossi (di semplice terracotta) stabilitoa tarì 3 e grani 10 il centinaio,offre infatti la possibilità di determinare il valore commerciale assegnato in questo periodo alla smaltatura e alla decorazione pittorica. Tenuto conto della relativa stabilità dei prezzi, caratteristica del passato, sugli undici tarì il centinaio doveva dunque attestarsi più o meno il costo dei mattoni della Badia di Caccamo che, nella storia dei pavimenti maiolicati del Settecento rappresentano il momento più felice delle realizzazioni siciliane. 
I pavimenti bianchi adornati da una semplice “festina” fabbricati nel 1777 per la Marchesa di Santa Croce, sorella del Duca di Sperlinga, come quelli destinati nel 1780 alla casa del principe d'Aragona, sembrano decretare la crisi degli istoriati e la riconquista del mercato da parte delle fabbriche napoletane con i loro rutilanti mattoni “ad attacco” destinati a nuovi gusti e alle più economiche pretese dei 1500 baroni, dei 142 principi e dei 178 marchesi che alla fine del secolo affollavano l’Isola. 

Note

1) Doc. 1
1750 ( 25 febbraio) ASP. Not. Nicolò Barone, Vol. 5951, f. 684 
ANTONINO BORRELLO (GURRELLO) si obbliga con il sacerdote Pietro Giovenco di Caccamo per la fornitura di mattoni "ad onda con linea nera" per il pavimento della chiesa madre di Caccamo. Il sacerdote Giovenco farà a sue spese la fodera della fornace, fornirà l'acqua dell'abbeveratoio, garantirà che nessuno molesti Borrello per la cava della creta nel territorio di Caccamo, pagherà a Borrello il trasporto del nozzolo e di legni per la cottura purché reperiti nel territorio di Termini e Caccamo, fornirà tutti i magazzini e le stanze necessarie. Prezzo pattuito tarì 16 il centinaio. Il lavoro inizierà nel mese di marzo 1750 e dovrà terminare entro il mese di maggio 1750. (già citato da A. Ragona, La maiolica Siciliana, pag.105)

Doc. 2
Archivio Parrocchiale SS. Annunziata di Caccamo vol. mandati dell'anno XV ind. 1751-1752 fogli non numerati - XII mandato 
Rev. Sac. dr. Rosario Patti tesoriero della Venerabile Parrocchiale Chiesa e Compagnia della SS. Annunziata di Questa città di Caccamo Pagate a don Matteo Amato onze due, tarì 29 e grana diciotto, se li pagano per averli spesi ed erogati pella venuta fece in questa [città]Don Nicolo' Sarzana mattonaro per fare il concerto delli mattonidevono servirepel pavimento di detta Chiesa, cioè
A mastro Giuseppe Calcara tarì dieciotto
per avere andata tre volte a Palermo 
con sua cavalcatura per detto affare det-
to....................................................……...onze 0.18.0
A Filippo Geraci tarì tredici per loghero 
d'un cavallo per avere andato due volte
in Palermo cioè una volta a pigliare det-
to di Sarzana per portarlo in questa [città]e
l'altra volta per portarlo in Palermo 
detto..............................................……….onze 0.13.0
A Giuseppe Randazzo tarì sei per una caval-
catura di carico per portare da questa [città]in 

Palermo galline ed altri di detto Sarzana

detto...............................................………onze 0.6.0
A detto di Calcara tarì 16.14 per vari stallag-
gi di dette cavalcature in Palermo, alla 
Milicia [Altavilla Milicia]ed in Termini [Imerese]detto..........onze 0.16.14
A detto Di Calcara tarì 13.8 per averli spe-
si alla Milicia e Termini per mangiare di
Sarzana detto..............................……..onze 0.13.8
A detto di Calcara onze 0. 10.10 per prezzo 
di numero 6 galline a tarì 1.15 l'una le me- 
desime reagalate a suddetto di Sarzana 
detto...........................................……...onze 0.10.10 

A voi medesimo tarì 3.15 per rotoli 2 e

mezzo miele a tarì 1.10 rotolo ……….onze 0.3.15 
A suddetto onze 0.1.10 per pane .…..onze 0.1.10 
A sudetto onze 0.1.8 per prezzo di rotoli 2
pasta ............................................ onze 0.1.8

Al medesimo onze 0.0.9 per rotolo mezzo 

tomazzo[formaggio].......................onze 0.0.9
Al medesimo onze 0.0.12 per rotolo mezzo ca-
scavallo[caciocavallo].............….onze 0.0.12
Al suddetto onze 0.2.17 per prezzo di quar-
tucci 9 e mezzo vino a grana 6 quartuccio
.......................................... …..onze 0.2.17
Al suddetto grana 4 per verdure onze 0.0.4
Al suddetto grana 12 per prezzo di numero 12 
uovi..........................................onze 0.0.12
Al suddetto grana 11 per pesci..onze 0.0.11
Ad un servente ........................onze 0.0.4
Col presente ed apoca in piede si faranno buoni a nostri conti onze 2.29.18
Caccamo lì 20 ottobre 1751 14a ind. Don Filippo Motta superiore
Don Giuseppe Vincenzo Ponte superiore
Antonino Ciaccio superiore
Notum qualiter per acta mea sub die vigesimo octobris 15a ind. facta per dictum de Amato favore dicti thesaurieri generale causa in presenti mandato quontenta detto ............onze 2.29.18
not. Cecala.

Doc. 3

Archivio parrocchiale della SS. Annunziata di Caccamo vol. di mandati dell'anno XV ind. 1751-1752 fogli non numerati - X mandato.
Reverendo Sac. dott. Don Rosario Patti tesoriere della venerabile parrocchiale chiesa e compagnia della SS Annunziata di questa città di Caccamo pagate a Nicolò Sarzana mattonaro di Palermo onze dieci a buon conto seu caparra del prezzo de' mattoni da farsi e perfezionarsi dal medesimo per servizi di detta nostra Chiesa pel spazio di mesi dieci e cioè da consegnarli ut dicitur a bocca di varca di mare di Palermo metà nel mese di maggio 1752 e metà nel mese di luglio di detto anno da ragionarsi ad onze 4.20.10 migliaro per tutta quella quantità di mattoni sarà di bisogno per detta Chiesa,conforme appare per obbligazione fatta per detto di Sarzana pelli atti di notar Martino Cecala sotto il 16 ottobre 15a indizione 1751 che col presente e apoca in piede,che si faranno buoni a conti-Caccamo lì 15 ottobre 15a ind. 1751 onze 10
Don Filippo Motta Superiore
Don Vincenzo Ponte Superiore
Antonio Ciaccio Superiore 
Notum qualiter per acta mea sub die 16 octobris 15a ind. 1751 in quontractus obligationis factum per dictum de Sarzana Panormitanum cum superioribus sacerdotis SS Annuntiatae exrat et apparet apoca dictum unciarum decem in computum eius mercedis et per causa in dicto quontractus contenuta et espressata onze 10
Don Blasius de Blasio absentia Not. Martini Cecala

(docc. resi noti dallo studioso A. Giuliana Alaimo)






Fornitura pavimento di Santa Cita

ASDP, vol. 6, c. 50, 26 ottobre 1702 
Agli atti del not. Cristoforo Cavarretta esiste apoca di once 27, tarì 14 e grani 16 a Mastro Carlo Zarzana per attratto e magisterio ut dicitur per detto contraente avere fatto l’ammadonato nell’antoratorio di detta Ve.le Compagnia e sono per infrascritta lista del seguente tenore: 
in primis once 21 d’ammadonato di valenza a quadretti pagati per mano di Giovanni Antonio Lugaro a ragione di once 1 e tt. 6 la canna; 
per portatura di madoni tt. 18; 
per mattoni restati seu rigirati del primo disegno once 1 tt. 8; 
per giornati 7 di mastro muratore once 1 e tt. 25; 
per giornati 7 di manovale tt. 25 e g. 20; 
per giornati 7 del picciotto tt. 15; 
per calcina, rina e gisso once 1 tt. 25. g. 6. 
In tutto once 27.14.16). Governatore della Compagnia era Giovanni Caradonna e i consiglieri Giacomo Piscetti e Gaspare Benfatta.

2) La proposta di S. Caronia Roberti (L’architettura del Barocco) dell’architetto Giganti come autore dei disegni, già messa in dubbio da A. Blunt (Barocco siciliano, 1986), appare definitivamente superata dall’invenzione dei numerosi documenti d’archivio in nostro possesso che assegnano i disegni e la direzione dei lavori all’architetto G.B. Cascione 
3) Cfr. R. Daidone, La Ceramica Siciliana, autori e opere dal XV al XIX secolo, Palermo 2005
4) ASP, Not. Sarcì Domenico Gaspare, Vol. 10236, f. 634, 20 aprile 1765 
5) M. C. Ruggeri Tricoli, L’architettura degli oratori, Palermo 1995
6) S. Settis, Il Bello dei Borboni, in “Il Sole-24 Ore”, 19 gennaio 2003.
7) Il documento relativo mi è stato fornito dall’Arch. Natale Finocchio al quale rinnovo i ringraziamenti per la preziosa segnalazione
8) Dalla storia della maiolica palermitana non sembrano emergere notizie di collaborazione più esplicite di questa, anche se l’intervento dell’architetto non pare debba essere escluso nel pavimento e nella spalliera che i Lazzaro prepararono nel 1591 per il palazzo senatoriale.
9) Atti dell’Archivio parrocchiale di S.Giovanni de' Tartari, vol. def. anno 1785-1786, atto n° 127, f. 9 v. Anno Domini 1786 ind. V die vigesima decembris Don Nicolaus Zarzana (sic)sponsus quondam D. Rosae aetatis annorum octuagintaquinque repentina morte correptus omnibus Sacramentis corroboratus hodie obiit. Eius corpus de licentia illustrissimi et reverendissimi Episcopi Vicarji Generali de Vanni in sella gestatoria depurtatum sepultum fuit in Ecclesia conventus S. Mariae Angelorum, ut dicitur alla Gancia.


Iconografia

foto del pavimento dell’Oratorio dei Bianchi
Mattonelle residue dell’Annunziata di Caccamo 
Pavimento della Badia con dovizia di particolari.
Rilievo del pavimento di Caccamo
Mattonelle di censo con l’emblema di San Benedetto (stella sormontata da corona)
Reliquato dell’Oratorio delle Dame
Reliquati del Palazzo Sant’Elia.

ATTENZIONE i raffronti con il pavimento dell’Oratorio di Sant’Elena e Costantino non hanno nulla a che vedere con il pavimento dell’annunziata di Caccamo. Il pavimento di S. Elena è Costantino fu fabbricato nel 1731 da Antonino Gurrello in società con Don Giuseppe Li Gotti il probabile pittore del pavimento (vedi atto notarile).
Un pavimento molto interessante fabbricato negli anni cinquanta del Seicento, attribuibile a Onofrio Cosentino, si trovava nell’Oratorio della Casa Professa a Palermo, in parte recuperato, è esposto in alcuni pannelli nel Museo della Casa professa. I gesuiti erano clienti di mastro Onofrio che, oltre ai catusi per il loro acquedotto, fornì anche le maioliche per la cupola della Chiesa distrutta nel secondo conflitto mondiale. Particolarmente esperto nella copertura delle cupole e dei campanili, oltre ad allestire i mattoni per Porta Nuova, fu autore del rivestimento del Campanile della Chiesa di San Giorgio di Caccamo. 

1731 ( 13 febbraio) ASP. Not. Giuseppe Domenico Azzarello, Vol. 3044, f. 615
Mastro Antonino Gurrello e Don Giuseppe Li Gotti forniscono i mattoni per pavimentare l’Oratorio dei Santi Elena e Costantino su disegno istoriato fornito dall’Architetto Andrea Palma.