L’osservazione potrebbe essere applicata a tutti gli oggetti che hanno un volume tridimensionale e che la riproduzione fotografica riduce a una sola piatta dimensione. Ma se si prendono in considerazione le antiche maioliche apotecarie, oggetto di collezionismo e di custodia museale, si può affermare che le loro fotografie non possono per molti versi essere considerate immagini fedeli agli originali. L’oggetto fotografato, a colori (atto necessario per le maioliche) non riesce infatti a rendersi credibile dal punto di vista cromatico per il limitato numero di colori di cui la fotocamera dispone; la fotografia dell’oggetto, Illuminato dall’operatore per un’esposizione adatta alla ripresa, non tiene infatti conto della contingenza in cui esso realmente si trova nell’ambiente in cui direttamente di solito si osserva. Il vaso di maiolica guardato in fotografia non è soltanto in grado di dichiarare la sua dimensione, ma neanche la quantità e la qualità di alcuni particolari che si potrebbero invece apprezzare attraverso l’esame suo diretto. La fotografia esclude il tatto che può rivelare aspetti importanti del manufatto ceramico: la levigatezza serica della superficie, le piccole asperità, l’incorporazione ineguale dei colori nello smalto, tanto per citarne alcuni. Se con un oggetto metallico (una moneta) se ne accarezza la pelle, ci si accorge che la fotografia nega alla conoscenza anche l’esperienza dell’udito che spesso rivela gli interventi di restauro ben nascosti alla vista: la parte restaurata non “suona” infatti alla stessa maniera argentina dal resto della superficie cui l’interno cavo, come negli strumenti musicali, fa da cassa armonica. La storia del collezionismo dimostra che, manufatti ritenuti autentici in fotografia, risultano, all’esame diretto, false riproduzioni (ma non è escluso che possa succedere il contrario) o pesantemente restaurati. Se si tiene poi conto delle correzioni che i mezzi moderni d’intervento mettono a disposizione attraverso i programmi d’informatica, gli inganni fotografici sono dietro la porta e occorre accontentarsi dei giuramenti. Occultare in malafede i difetti di un esemplare, esaltarne o falsarne i colori è un gioco da bambini. Ecco perché è necessaria molta prudenza nell’acquisto di una maiolica alle aste rassicurati soltanto dalle fotografie fornite dai cataloghi. Dovendosi lo studioso rassegnare per motivi contingenti all’esame attraverso l’immagine riprodotta, un vantaggio le fotografie potrebbero offrirlo quando la maiolica viene ripresa e mostrata da ogni lato, compreso il fondo, operazione naturalmente difficile, se non Impossibile alla visione diretta. Se attraverso diverse foto, le quattro facce dell’oggetto possono essere contemporaneamenteesaminate su una stessa pagina, non è vantaggio di poco conto che supplisce però, solo in parte, alle altre pesanti manchevolezze delle immagini. Attraverso la fotografia, come accade per le persone (a meno di essere convinti lombrosiani) non si è dunque in grado di conoscere il “carattere” vero delle maioliche. Fortemente illuminati, gli antichi reperti davanti all’apparecchio fotografico perdono, come spesso accade alle persone in posa, di autenticità. Contenitori di farmaci, le maioliche sono state ospitate per secoli dalle botteghe poco luminose degli speziali, rischiarate, la sera, dalle fiammelle tremolanti delle candele. Isolate nell’esposizione delle vetrine dei musei sotto la luce delle lampade, le opere perdono ugualmente parte del loro fascino. Allontanate dall’ambiente “oscuro” delle antiche botteghe e deprivate della compagnia delle consorelle del corredo, non offrono la stessa emozione, specialmente quando se ne vede qualcuna persa sopra il mobile di una casa privata o nella bottega di un antiquario affollata di oggetti. In un ufficio scolastico mi è capitato anni fa di vedere un albarello di Caltagirone del Settecento posato accanto ad una macchina da scrivere come contenitore per le matite. Nella Mostra, tenuta a Palermo nel Palazzo Abatellis (ottobre- gennaio del 2006) grande successo di pubblico riscosse la nostra decisione di esporre diverse maioliche in uno spazio che, grazie all’antico stivile posseduto dal Museo e al lavoro delle maestranze, ci permise di ricostruire, con una certa verosimiglianza, la parte di un’antica spezieria dove le maioliche potessero essere osservate insieme nell’ambiente proprio per il quale furono create (cfr. Aromataria, Cat. A cura di R. Daidone, Palermo 205). E’ il fascino che possiede e l’emozione che suscita la spezieria di Roccavaldina non soltanto per la bellezza delle singole opere, ma soprattutto per l’ambiente rimasto intatto dalla fine del XVI secolo. Anche se accompagnata da una descrizione scritta, la fotografia appare sterile e di poca efficacia col pericolo che, considerata a sé stante, l’opera ritratta, deprivata della sua funzione e della residenza, perde gran parte del valore di documento necessario, spesso insostituibile per la conoscenza non solo degli antichi rimedi per la salute, ma anche come testimonianza delle credenze, dei gusti e delle mode di un passato assai povero di immagini. E però gli studi si fanno spesso sulle fotografie sicché negli anni si è creato un mondo parallelo di carta, nato dall’attenzione alle singole realizzazioni ignorando gli ambienti di destinazione e l’uso che era loro riservato. Ci si è accaniti con sottili disquisizioni sull’attribuzione, spesso forzata, agli autori e alle officine di appartenenza, come se, squartando un corpo, si indirizzasse l’interesse esclusivamente alle singole parti. Ricreare gruppi omogenei per area di produzione con il raduno degli esemplari pervenuti potrebbe essere opera meritoria dei Musei, purché non accada, come succede in qualche istituzione, che le numerose opere di cui dispongono vegano relegate alla polvere dei depositi.
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