martedì 27 aprile 2021

LE FOTOGRAFIE DELLE MAIOLICHE



L’osservazione potrebbe essere applicata a tutti gli oggetti che hanno un volume tridimensionale e che la riproduzione fotografica riduce a una sola piatta dimensione. Ma se si prendono in considerazione le antiche maioliche apotecarie, oggetto di collezionismo e di custodia museale, si può affermare che le loro fotografie non possono per molti versi essere considerate immagini fedeli agli originali. L’oggetto fotografato, a colori (atto necessario per le maioliche) non riesce infatti a rendersi credibile dal punto di vista cromatico per il limitato numero di colori di cui la fotocamera dispone; la fotografia dell’oggetto, Illuminato dall’operatore per un’esposizione adatta alla ripresa, non tiene infatti conto della contingenza in cui esso realmente si trova nell’ambiente in cui direttamente di solito si osserva. Il vaso di maiolica guardato in fotografia non è soltanto in grado di dichiarare la sua dimensione, ma neanche la quantità e la qualità di alcuni particolari che si potrebbero invece apprezzare attraverso l’esame suo diretto. La fotografia esclude il tatto che può rivelare aspetti importanti del manufatto ceramico: la levigatezza serica della superficie, le piccole asperità, l’incorporazione ineguale dei colori nello smalto, tanto per citarne alcuni. Se con un oggetto metallico (una moneta) se ne accarezza la pelle, ci si accorge che la fotografia nega alla conoscenza anche l’esperienza dell’udito che spesso rivela gli interventi di restauro ben nascosti alla vista: la parte restaurata non “suona” infatti alla stessa maniera argentina dal resto della superficie cui l’interno cavo, come negli strumenti musicali, fa da cassa armonica. La storia del collezionismo dimostra che, manufatti ritenuti autentici in fotografia, risultano, all’esame diretto, false riproduzioni (ma non è escluso che possa succedere il contrario) o pesantemente restaurati. Se si tiene poi conto delle correzioni che i mezzi moderni d’intervento mettono a disposizione attraverso i programmi d’informatica, gli inganni fotografici sono dietro la porta e occorre accontentarsi dei giuramenti. Occultare in malafede i difetti di un esemplare, esaltarne o falsarne i colori è un gioco da bambini. Ecco perché è necessaria molta prudenza nell’acquisto di una maiolica alle aste rassicurati soltanto dalle fotografie fornite dai cataloghi. Dovendosi lo studioso rassegnare per motivi contingenti all’esame attraverso l’immagine riprodotta, un vantaggio le fotografie potrebbero offrirlo quando la maiolica viene ripresa e mostrata da ogni lato, compreso il fondo, operazione naturalmente difficile, se non Impossibile alla visione diretta. Se attraverso diverse foto, le quattro facce dell’oggetto possono essere contemporaneamenteesaminate su una stessa pagina, non è vantaggio di poco conto che supplisce però, solo in parte, alle altre pesanti manchevolezze delle immagini. Attraverso la fotografia, come accade per le persone (a meno di essere convinti lombrosiani) non si è dunque in grado di conoscere il “carattere” vero delle maioliche. Fortemente illuminati, gli antichi reperti davanti all’apparecchio fotografico perdono, come spesso accade alle persone in posa, di autenticità. Contenitori di farmaci, le maioliche sono state ospitate per secoli dalle botteghe poco luminose degli speziali, rischiarate, la sera, dalle fiammelle tremolanti delle candele. Isolate nell’esposizione delle vetrine dei musei sotto la luce delle lampade, le opere perdono ugualmente parte del loro fascino. Allontanate dall’ambiente “oscuro” delle antiche botteghe e deprivate della compagnia delle consorelle del corredo, non offrono la stessa emozione, specialmente quando se ne vede qualcuna persa sopra il mobile di una casa privata o nella bottega di un antiquario affollata di oggetti. In un ufficio scolastico mi è capitato anni fa di vedere un albarello di Caltagirone del Settecento posato accanto ad una macchina da scrivere come contenitore per le matite. Nella Mostra, tenuta a Palermo nel Palazzo Abatellis (ottobre- gennaio del 2006) grande successo di pubblico riscosse la nostra decisione di esporre diverse maioliche in uno spazio che, grazie all’antico stivile posseduto dal Museo e al lavoro delle maestranze, ci permise di ricostruire, con una certa verosimiglianza, la parte di un’antica spezieria dove le maioliche potessero essere osservate insieme nell’ambiente proprio per il quale furono create (cfr. Aromataria, Cat. A cura di R. Daidone, Palermo 205). E’ il fascino che possiede e l’emozione che suscita la spezieria di Roccavaldina non soltanto per la bellezza delle singole opere, ma soprattutto per l’ambiente rimasto intatto dalla fine del XVI secolo. Anche se accompagnata da una descrizione scritta, la fotografia appare sterile e di poca efficacia col pericolo che, considerata a sé stante, l’opera ritratta, deprivata della sua funzione e della residenza, perde gran parte del valore di documento necessario, spesso insostituibile per la conoscenza non solo degli antichi rimedi per la salute, ma anche come testimonianza delle credenze, dei gusti e delle mode di un passato assai povero di immagini.  E però gli studi si fanno spesso sulle fotografie sicché negli anni si è creato un mondo parallelo di carta, nato dall’attenzione alle singole realizzazioni ignorando gli ambienti di destinazione e l’uso che era loro riservato. Ci si è accaniti con sottili disquisizioni sull’attribuzione, spesso forzata, agli autori e alle officine di appartenenza, come se, squartando un corpo, si indirizzasse l’interesse esclusivamente alle singole parti. Ricreare gruppi omogenei per area di produzione con il raduno degli esemplari pervenuti potrebbe essere opera meritoria dei Musei, purché non accada, come succede in qualche istituzione, che le numerose opere di cui dispongono vegano relegate alla polvere dei depositi.    

     

giovedì 22 aprile 2021

Un albarello nasitano del XVII secolo




Gli abitanti ebrei di Naso (Messina) furono antichi allevatori di bachi e commercianti di seta almeno fino al 1664 quando persero con Messina ribellatasi alla Spagna, l’antico monopolio.
Nell’ultimo quarto del ‘500 La famiglia dei Lazzaro, nasitani di origine ebraica, cercò di coniugare -come si evince dai documenti- il commercio della seta con la produzione della maiolica.
I Fratelli Geronimo, Cono e Paolo, trasferitisi a Palermo, nel 1591, animarono con immediato successo un’officina di maioliche nel quartiere dell’Albergheria dove allestirono, oltre a pavimenti di maiolica decorata per la pubblica committenza, numerosi corredi da spezieria di stile faentino. Cono Lazzaro, impegnato anche nel commercio della seta, tornato al paese natio dopo la chiusura dell’officina in seguito alla morte dell’anziano fratello Geronimo nel 1607, potrebbe essersi riunito agli zii (Paolo o Giovanni Lazzaro) attivi da tempo nella produzione delle ceramiche nel quartiere di Bazia.
Il fratello minore, Paolo -rimasto a Palermo -come erede dello stazzone del suocero Antonino Oliva, insieme al decoratore monrealese Andrea Pantaleo alle sue dipendenze, diventerà indiscusso protagonista dell’arte della maiolica siciliana sino alla morte avvenuta nel 1638.
L’albarello, assegnabile alle officine nasitane per inconfutabile assimilazione ad una boccia in cui è segnato il luogo di produzione (Immagine in Governale, Recto Verso), reca nel medaglione la figura di un personaggio barbuto con cappello e mantellina neri intento all’esegesi di un testo, come si evince dalla posa e dall’atteggiamento “didattico” che assume. Non è difficile immaginare che il personaggio dipinto intenda raffigurare un Rabbino che illustri i testi sacri dal momento che l’interpretazione della figura ben si collegherebbe alla tradizione religiosa della numerosa famiglia dei figuli Lazzaro e alla produzione di una loro officina attiva a Naso nei primi anni del Seicento.   

venerdì 9 aprile 2021

Renoir e le maioliche di Caltagirone


Non so se correva più o meno velocemente di ora, ma sono sicuro, rivendendo le date delle mie pubblicazioni sull’argomento, che era l’anno 2005 quando ammirando con attenzione il dipinto di Renoir
 “Jeunes filles au piano”mi accorsi non senza sorpresa, divenuta, come si può immaginare, motivo di piacere e orgoglio, che nella scena, sul pianoforte cui è appoggiata una delle due ragazze pronta ad allietare l’altra con la musica, era posato un vaso antico (boccia da spezieria) di maiolica di Caltagirone colma di un mazzo di fiori.
 

Da una immediata ricerca sulle opere del pittore impressionista (Limoges 1841- Cagne sur Mer 1919) mi accorsi che in tre delle cinque repliche del quadro, custodito al Museo d’Orsey di Parigi, erano dipinti altrettanti vasi calatini, come se nelle poche varianti pittoriche delle repliche all’artista interessasse particolarmente la presenza quasi ossessiva di quegli oggetti preziosi. Le inattese esistenze ceramiche nelle tele di Renoir costituirono per me, studioso della materia, il punctum cui pensavo di rivolgere la mia attenzione e di cui nessuno, meglio attrezzato di me, si era curato, a quanto pare, nei numerosi saggi sull’opera del pittore.   

Renoir era stato a Palermo nel gennaio del 1882 per eseguire il ritratto del musicista Wagner che, all’Hotel delle Palme, si accingeva ad ultimare il Parsifal. Immaginai allora che Renoir, dopo essere stato a visitare Monreale, gironzolando per la città, in attesa di essere ricevuto dallo scontroso musicista, avesse notato nella vetrina di un negozio d’antiquariato palermitano le maioliche che tanto lo interessarono da decidere di acquistarne alcune e spedirle in Francia all’indirizzo del suo studio. 

Non si poteva dubitare che, a dieci anni di distanza del suo viaggio a Palermo, durante la creazione delle Jeunes filles, nel 1892, la maiolica dipinta non fosse presente davanti al suo cavalletto, così precisa è la conformità dell’oggetto rappresentato rispetto alle maioliche di Caltagirone, sia nell’aspetto volumetrico che nella decorazione. Non appare possibile infatti che potesse dipingere “a memoria” data la perfetta coincidenza identitaria tra l’oggetto e la sua rappresentazione pittorica. Ma la convinzione che l’interesse artistico per le maioliche siciliane fosse legato al suo viaggio a Palermo durò fino a quando, esaminando altre opere del pittore, mi accorsi che un quadro con fiori dentro una boccia con rosette di buon-augurio e ramges su fondo blu di fabbricazione calatina era stato eseguito intorno al 1878, quattro anni prima dunque del suo viaggio a Palermo! Costretto a rivedere con una certa delusione la mia ipotesi alla quale mi ero calorosamente affezionato per il fascino che la coincidenza tutta siciliana suscitava, non restava che tentare altre vie per giustificare la sorprendente presenza in forma di pittura delle ricorrenti maioliche siciliane che, nella loro solida esistenza, dovevano, sicuramente, essere presenti nello studio del pittore. 

E’ noto che da giovane Renoir aveva lavorato come decoratore di ceramica nelle famose officine di Limoges, sua città natale, dove, come modelli e fonte d’ispirazione, dovevano probabilmente esistere delle  maioliche antiche. Ma il lavoro di Renoir a Limoges era stato abbandonato da anni e la tesi risultava anch’essa poco agibile se non del tutto infondata dal momento che nel periodo in cui il pittore dipingeva le Jeunes filles non abitava più nella città.

 Tra le notizie biografiche più dettagliate è riportato che un suo amico, il padre delle due ragazze che posarono per le “jeunes filles”, fosse un appassionato collezionista di maioliche per cui l’ipotesi più probabile al momento potrebbe restare quella di eventuali prestiti delle maioliche siciliane fatti dall’amico al pittore perché se ne servisse come modelli per i suoi quadri. 

I motivi di tanta attenzione, così insistita, tanto che dal 1878 al 1914 Renoir dipinse, quasi fino alla sua morte, almeno sei quadri con i vasi di Caltagirone, da parte di un maestro del colore e uno dei più autorevoli rappresentanti dell’Impressionismo appaiono così chiari che non necessitano di giustificazione artistica o psicologica. Architetture così equilibrate, blu così profondi, verdi squillanti, bianchi purissimi e gialli così intensi come quelli che i maestri calatini del Settecento seppero dare alle loro maioliche non è facile incontrarne nelle realizzazioni di altre fabbriche europee che pure godono di qualche citazione in altri dipinti di Renoir.       

La mia scoperta, conosciuta attraverso un articolo scritto per la rivista “CeramicAntica” e la pubblicazione nel volume “La Ceramica Siciliana” per l’editore Kalos nel 2005, suscitò l’interesse del Museo internazionale delle Ceramiche di Caltagirone che dedicò all’evento inaspettato una vetrina con il mio articolo nella rivista corredato da una riproduzione del quadro di Renoir e da un paio di maioliche, corrispondenti a quella dipinta nella tela, custodite nel Museo.

Ma le notizie di contenuto artistico non hanno, a quanto pare, gran lena e non godono della stessa velocità di diffusione di quelle d’altro genere o di cronaca per cui il 27 febbraio del 2012 (sette anni dopo la mia scoperta) un articolo dal titolo Mistero al Museo della ceramica di Caltagirone di una non meglio nota Giorgia Turco, incuneava l’evento, ormai non più fresco di giornata, tra la citazione di una vera eminenza nell’ambito della maiolica come il mio amico Antonino Ragona e la confezione della tesi di laurea in lettere e filosofia di una ragazza dell’università di Palermo. La signora scriveva: “… grazie alla tesi di laurea di Lucia Ajello, neolaureata in lettere e filosofia a Palermo e alla rilettura de “La Ceramica siciliana” di Rosario Daidone pubblicato grazie (sic!) agli studi del Prof. Antonino Ragona, ceramologo di fama internazionale (…) è stata scoperta la presenza di ceramiche calatine del XVIII secolo in tre delle cinque versioni delle “Jeunes filles au piano” (…). 

Che dire? Intempestiva improvvisazione o vera e propria disonestà intellettuale? 

Fortunatamente lo stesso fenomeno non si è verificato negli studi internazionali più accreditati. In un lungo articolo francese ricco di immagini del 12 maggio dello stesso anno (blog Bon sens et deraison), a proposito della mia scoperta si legge: …”C’est un ceramologue réputé et éminente, Rosario Daidone, qui a lancé “l’affaire”. Se trouvant devant la peinture de Renoir “Jeunes filles au piano” son regard fut attiré par le vase empli de fleurs posé sur le piano: “mais c’est une boccia de Caltagirone !..

Se ci fosse bisogno di ribadirlo, gli esempi servano a confermare che nessuno si illuda di essere profeta in patria, specialmente nella nostra amata Italia dove a chiunque potrà capitare, (come a me è capitato talvolta con le scuse tardive del responsabile dopo le mie contestazioni) di leggere interi periodi delle mie pubblicazioni trascritti da qualcuno senza l’uso delle virgolette né l’ombra di una citazione nel tentativo di spacciare per proprie le fatiche altrui.