mercoledì 3 novembre 2021

L’AMORE DI ANGELICA E MEDORO IN DUE VASSOI DI TERRAGLIA



Di forma circolare, il vassoio palermitano è interessato da un’ampia scena dipinta in monocromia con la rappresentazione dell’amore di Angelica e Medoro colti nell’atto di incidere i loro nomi nel tronco di un albero. 

Il tema cantato dall’Ariosto nell’Orlando Furioso (canto XIX, ottava 36) è risolto in chiave realistica inserito com’è in un paesaggio minutamente descritto con alberi, case e montagne sullo sfondo che alla scena assicurano profondità di campo.

Due sono i modelli cartacei del soggetto ispiratore: le incisioni riprese entrambe da un dipinto di Teodoro Matteini (1754-1831). L’una del napoletano Raffaello Morghen (1758-1833), l’altra di Giovanni Folo (1764-1863) che è custodita anche a Napoli nella collezione di stampe della Certosa di San Martino. 

Alla stessa fonte iconografica attinge il vassoio ovale della Fabbrica Del Vecchio di Napoli realizzato anch’esso nel primo Ottocento, probabilmente dopo l’opera dell’Opificio palermitano di cui conosciamo la data di chiusura avvenuta in seguito alla morte del fondatore nel 1819.

Mentre la realizzazione dell’Opificio del Barone Malvica si attiene fedelmente alla fonte iconografica anche dal punto di vista coloristico, il vassoio napoletano punta su una squillante policromia e adotta alcune varianti di non poco rilievo: la presenza della scritta sul tronco dell’albero ripetuta sulla base in cui siedono i due amanti appena percepibile nelle due incisioni; l’enfatizzazione della fiaccola che agita Cupido dietro l’albero e, ancor più evidente, l’allungamento della pianta fiorita in primo piano che arriva quasi a toccare le braccia dei due personaggi. A indicare il discostamento dal modello nella rappresentazione partenopea della scena, la vegetazione non sembra tenere in conto la fonte. 

L’esuberanza stilistica che caratterizza il vassoio napoletano contempla anche una ricca minuta decorazione della tesa affidata a tre registri concentrici di ricercata eleganza. L’opera palermitana ricorre invece qui al traforo e ad una più semplice decorazione arricchita dalle dorature.

La fedele esecuzione del vassoio palermitano, leggermente più piccolo dell’altro, con ragionata sicurezza è attribuibile allo stesso direttore della Fabbrica della Rocca, Giuseppe Sebastiani, “professore di scultura, stamperia, modello e pittura” al servizio del barone sin dal 1801. Il vassoio napoletano è uscito invece dalla fornace della Fabbrica Del Vecchio come indica la marca FDV e lettera N incussa nel verso, ma non attribuibile in particolare ad uno dei maestri decoratori della stessa famiglia.

Al di là di ogni giudizio comparativo di natura artistica, desta particolare interesse l’aspetto relativo agli stretti rapporti culturali che legavano i due poli del Regno sotto l’egida di Sua Maestà Ferdinando di Borbone che le concomitanti opere testimoniano, la rivisitazione del tema amoroso della poesia rinascimentale nell’Ottocento romantico mediato dalle opere pittoriche, in particolare dalle stampe in rapida circolazione nell’Italia preunitaria. L’acquaforte ispiratrice di Raffaello Morghen fu eseguita (a Firenze o a Roma) intorno al 1795, quella diGiovanni Folo, nato a Bassano del Grappa, ma operante a Roma, nel marzo del 1801. Esse sono tratte, come si è detto, dallo stesso dipinto che il pittore Matteini aveva realizzato in tela a godimento privato del signor F.A. Hervey, conte di Bristol. 

La rappresentazione del soggetto erotico che poteva suscitare scandalo nella diffusa mentalità codina dell’Ottocento per le nude bellezze in primo piano dell’ammaliante Angelica, destinata, nelle stampe, forse a delizia “per soli uomini”, non impedisce alle due fabbriche meridionali di farne oggetto di ricercata aperta fruizione nei salotti di una spigliata borghesia parteno-palermitana divertita dai pettegolezzi sui tradimenti amorosi frequenti nella stessa casa regnante e adusa alla libertà dei costumi degli ospiti stranieri, lord e lady inglesi, favorita dal caldo clima mediterraneo, confortata dalle immagini erotiche svelate dagli scavi di Pompei. Nelle riunioni salottiere del primo Ottocento qualcuno, pensando ai versi del Meli, non avrà fatto a meno di ammirare, tra una chicchera di caffè o un bicchierino di rosolio offerti dalla padrona di casa, il provocante profilo di Angelica che è il fulcro malizioso della scena dei due vassoi.

Considerando il diffuso amore per l’erotico tutto meridionale lontano dalla volgarità, d’antica tradizione culturale, capace di rendere libere e liete le adunanze, non è una forzatura interpretativa pensare che rientri in questa caratteristica del costume il fatto che il Gattopardo narrando le vicende siciliane del secolo si apra con le nereidi dipinte nel pavimento di maiolica della villa nobiliare che corrono all’abbraccio e al bacio. E non è un caso che, nell’ampia possibilità di scelta offerta dalle favole classiche, il Palazzo sant’Elia a Palermo, nel secondo Settecento scegliesse per il pavimento di maiolica del suo salone la scena di Pan che spia le nude ninfe al bagno. Non sorprende leggere quindi nei documenti dell’Archivio di Stato che una signora dell’aristocrazia palermitana trascinava il marito davanti al notaio perché si mettesse nero su bianco la sua disponibilità a seguirlo nella residenza di campagna soltanto a patto che si facesse ritorno in città all’apertura delle danze nel Teatro di Santa Cecilia che un marchingegno consentiva, abbassandone il palcoscenico, di trasformarlo in una affollata sala da ballo. D’altronde più o meno nello stesso periodo il viceré di Sicilia Marc’Antonio Colonna, pur intestando la porta della città alla moglie Felice, non si peritava di fare eseguire una statua di sirena in bronzo con le fattezze della sua amante, Eufrosina Corbera, da porre sulla fontana lungo la passeggiata della marina dove ogni cocchiere, per discrezione, era invitato, di sera, a spegnere i lumi della carrozza come osservavano stupiti di tanto libertinaggio algidi viaggiatori stranieri. Né si pensi che al carattere mediterraneo non appartenga la Calabria, a torto considerata, tra Sicilia e Campania, una specie d’intermezzo del Regno, se in un diffuso detto antico esprimeva il suo inno alla gioia di vivere esclamando senza eufemismi di sorta, “Viva lu munnu, lu culu e lu cunnu”!

Partire dalla descrizione di due vassoi di maiolica per adire ad una seppur breve e incompleta considerazione del carattere e dei costumi di un popolo è forse un’operazione assai rischiosa e discutibile, ma questo credo debba essere il tentativo di chi, uscendo dalla generica rappresentazione strettamente legata alla materia, consideri i reperti, seppur recenti, come una testimonianza, tassello di un ampio mosaico, che aiuti a meglio comprendere il passato. 



a) Vassoio rotondo, diam. cm. 34

Galleria Regionale della Sicilia, Palermo, inv. 6778

Palermo, primo o secondo lustro del XIX sec.

 

b) Vassoio ovale, diam. cm. 36,8/28,8

Museo Duca di Martina, Napoli

Napoli, primo quarto del XIX sec.

Marca “FDV con lettera N” incussa nel verso

 




Teodoro Matteini (1754-1831) - Angelica e Medoro



a) Raffaello Morghen (1758-1833), Angelica e Medoro acquaforte

 

b) Giovanni Folo (1764-1863), Angelica e Medoro acquaforte



 

lunedì 5 luglio 2021

I PAVIMENTI “A TUTTA CACCIA” DEL MONASTERO DI SANTA CHIARA

 La storia della maiolica, che tra le arti cosiddette minori ha riconosciuta sussidiarietà testimoniale e privilegio di coniugare artisticamente forma e pittura d’inossidabili colori, è disciplina che richiede, come le altre, attività di ricognizione e ricerca d’archivio. Nei documenti notarili, inventari quasi sempre di antiche spezierie, il vasellame è tuttavia annotato soltanto con l’indicazione della forma e del luogo di fabbricazione. Ancor più stringate sono le note relative ai pavimenti di maiolica. Assenti del tutto sui contenuti, anche quando si tratta di opere di pregio, scene e paesaggi “a tutta caccia”, frequenti dal Quattrocento al Settecento nei palazzi nobiliari, chiese e conventi siciliani. Trattandosi di oggetti d’uso a cui la storia dell’arte dedica crescente attenzione e interesse, conoscere luogo di produzione e cronologia è un’esigenza quasi sempre difficile da determinare con certezza, tanto che pareri, controversie e sottili disquisizioni nell’ambito degli studiosi della materia sono più frequenti di quanto si possa immaginare. E’ dunque rara, fortunata congiuntura capace di suscitare una certa soddisfazione, trovare, per dirla col Ragona, un documento e un monumento palermitano ancora esistente, l’uno e l’altro combacianti e inediti. 

Si tratta di una testimonianza del XVII secolo, emersa dall’Archivio di Stato palermitano, e di due pavimenti del Monastero di Santa Chiara nel quartiere dell’Albergheria scampati a varie vicissitudini compreso il terremoto che nel 1726 produsse gravi danni alle strutture dell’edificio. Sfuggiti, per sconosciuti motivi, all’indagine degli studi più accreditati e, mea culpa, erroneamente attribuiti nel 1997, nel Catalogo della Mostra Terzo Fuoco a Palermo, al mattonaro Nicola Sarzana che nel 1776 si occuperà invece del pavimento del refettorio dello stesso edificio. Di un pavimento maiolicato del tardo Settecento, a complicare le cose, godeva anche la Chiesa del Monastero, sostituito col marmo negli anni Cinquanta del secolo scorso, di cui resta un lacerto dietro l’altare maggiore. 

I pavimenti del dormitorio delle Clarisse, esistenti in due delle quattro celle– oggi, ad evitarne il crollo, puntellate dal piano sottostante- restituiscono solo in parte l’aspetto originario per l’usura che svela in diverse zone il rosso ferroso dell’argilla palermitana. 

Nelle due opere, articolate cornici spugnate di verde e contornate di giallo si intersecano con altre più sottili di colore azzurro e inquadrano disegni a graticcio, stilizzate cornucopie di frutta e fiori alla moda, paesaggi in monocromia. 

Il tema centrale della caccia, che caratterizza i commessi, ha diversa impostazione scenografica nei due pavimenti. In entrambi Il cacciatore a cavallo e i cani inseguono un cerbiatto, conigli fuori pericolo tranquillamente brucano l’erba, canestri di paglia intrecciata ricolmi di frutta ricordano le nature morte nelle tele del periodo. Paesaggi, disegnati in monocromia azzurra di ascendenza ligure negli angoli; diverse sono le cornici terminali che, escluse dal calpestio, corrono intatte lungo i muri delle due stanze a delimitare con incisiva eleganza gli impiantiti: un festone di foglie verdi con raccordi e nastri gialli -ricordo di antiche insistite robbiane- nel primo; grandi foglie ricorrenti azzurre e verdi nell’altro. 

In una delle due opere il cacciatore sul cavallo morello al galoppo contro vento, la spada pronta a colpire, si affaccia improvvisamente sulla scena dominata da un grande albero cui si dirige ad ali spiegate un uccello variopinto. Due cani ansanti sono vicini alla preda, ma l’agile cervo sembra irraggiungibile e sta per mettersi in salvo nell’intrigo degli alberi e le macchie del folto. Una sapiente dinamica scena osservata dall’aperta finestra della cornice azzurra, un’istantanea del dramma in cui i protagonisti improvvisamente appaiono e velocemente si sottraggono alla vista come in uno di quei giochi ad effetto in cui il secolo della meraviglia si provava smanioso di allusioni allegoriche che, per suggerita ipotesi del cervo come simbolo e motivo ricorrente nell’iconografia cristiana, in queste opere si possono facilmente immaginare.

Osservata da lontano, nella scena del secondo pavimento, la cerva, inseguita dal cacciatore sul cavallo bianco ha movenze eleganti di antiche pitture, aspetto dorato d’acquamanile medievale. Un albero inarcato dal vento, un uccello pigro sul ramo. E azzurre montagne all’orizzonte. La bestia innocente sfugge anche qui illesa al feroce cacciatore nell’allegorico significato che pure questa scena sottende.

 Merita qualche puntualizzazione la fornitura, affidata all’officina Di Leo, corredata da concomitanti notizie archivistiche relative ad altrettante testimonianze materiali.  

Aveva da poco compiuto diciotto anni Antonino Di Leo quando il 3 aprile del 1628 sposava Rosana, di dodici, rimasta orfana del padre Giuseppe, figlio del defunto Antonino Oliva proprietario della prestigiosa bottega aperta a Palermo alla fine del ‘500 nella strata delli stazzoni dove ci è la immagine di San Giuseppe.  Uno “stazzone” attivo nelle forniture pubbliche e private di terrecotte, pavimenti istoriati e vasellame maiolicato per le spezierie siciliane ormai non più legate alle importazioni vascolari operate, se non imposte, dai mercanti genovesi nel corso del XVI secolo. Egli, per i diritti ereditari della moglie, diventava socio del mastro nasitano Paolo Lazzaro, che aveva sposato Isabella, figlia del vecchio proprietario. Alla società costituita non mancavano le commesse, anche di mattoni smaltati modulari alla moda come quelli, “a mustazzola verde bianco e nero”, simili agli esemplari allestiti per la Badìa di Montevergini, che nel 1633 furono inviati nel lontano paese d’Isnello.

Morto nel 1638 il socio nasitano, Antonino, ormai unico conduttore dell’impresa, impegnato nella fornitura di pavimenti dipinti per il Palazzo Reale, apprestava nel 1657 centinaia di mattonelle da censo con l’immagine dell’anima purgante per l’Unione Miseremini della Chiesa di San Matteo del Cassaro di cui sopravvive -altra coincidenza - qualche esemplare in collezione privata e nel Museo Diocesano di Palermo. Nel 1669, in concorrenza con l’officina Cosentino, che si aggiudicava la copertura della guglia, Antonino vinceva la gara d’appalto indetta dal Senato per la fornitura del pavimento della stanza sulla Porta Nuova -disegno dell’architetto Gaspare Guercio- ancora quella in cui erano avvenuti gli incontri furtivi tra il viceré Colonna ed Eufrosina Corbera. Sono soltanto alcune delle numerose forniture di pavimenti smaltati che attestano il prestigio di cui godeva la bottega palermitana in Sicilia nella seconda metà del Seicento e che giustificano, secondo l’atto notarile del 31 ottobre 1684, la scelta del Monastero di Santa Chiara per la realizzazione dei pavimenti ricchi di particolari disegnati dall’ Ingegnero Paolo Amato (1634- 1714) impegnato dal 1678 nei restauri del convento, o meglio, da lui con ogni probabilità creati in carta, come solitamente facevano gli architetti -non alieni dall’arte della pittura- per gli edifici in allestimento a loro affidati, come testimoniano i progetti firmati nel Settecento da Andrea Gigante, custoditi nella Collezione di stampe del Museo di Palazzo Abbatellis.

Dopo le vicissitudini che nel corso dei secoli hanno sconvolto le

antiche costruzioni della città, risparmiati dalle bombe che nel secondo conflitto mondiale colpirono il Monastero distruggendone parzialmente la Chiesa, i due pavimenti di Santa Chiara costituiscono un raro esempio di commessi palermitani dipinti del XVII secolo. Si tratta di 3.680 mattoni di 18 centimetri di lato, come si legge nell’atto notarile, “per servizio delli celli del nuovo dormitorio nuovamente fatto e per li passi delli detti celli”. (quattro camere e il relativo corridoio) “quali l’habbiano d’essiri bene magistribilmente fatti ben stagnati et pinti”. Due mesi di lavoro, a cominciare dal 31 ottobre, per una fornitura che il nostro maiolicaro doveva consegnare puntualmente ai muratori in diverse rate e completare immancabilmente entro il 24 dicembre di quell’anno. (2)

Un ricercato dono per le monache, che condividono con i fratelli francescani l’amore per la natura; innocente riservata bellezza di scenografiche finzioni, conforto e memoria delle perdute campagne, nostalgia delle allegre brigate nelle lunghe residenze estive con la famiglia. 

I patti prevedevano, fatta salva “la portatura” a carico del Monastero, il prezzo di once 1 e tarì 10 singolo centinario”.  Spesa complessiva di 42 once e 10 tarì netti che copriva fatica, cartoni e colori occorrenti alla complessa stesura pittorica nonché l’impegno d’assistere i muratori all’appatto dei mattoni nel complicato svolgimento del disegno.  

Per fornire alcuni elementi di paragone relativi al prezzo pagato dalla badessa del tempo -Lorenza Ventimiglia- è opportuno riferire che all’inizio del secolo il nasitano Geronimo Lazzaro, fratello di Paolo, aveva decorato i pavimenti di un “salone e camerone” del Palazzo Reale (non più esistenti) per 24 tarì il centinaio; nel 1630 un addetto, esperto di tornitura e smalti, veniva retribuito “quando fa maduni tarì 17 per ogni migliaro; quando mina stagno tarì 3 e grani 10; quartarami a grani 13 la testa. Lo stesso Antonino Di Leo aveva ricevuto per la citata fornitura d’Isnello 24 tarì ogni cento mattoni. Un curioso documento notarile, che mi piace allegare per certi riscontri d’attualità, informa che nel 1657 un certo Antonio Sardisco riceveva il salario di un’onza e 10 tarì l’anno dalla Compagnia di Gesù per non far fare sporchezze da picciotti, bottare mondizza, nè altre lordezze nel piano della Casa Professa et sempre mantenerlo limpido.

 Un’onza di Sicilia equivaleva a 30 tarì: un tarì a 20 grani; un grano a 6 denari.

Che l’esecutore di un’opera così ricca di coinvolgenti dettagli sia stato il titolare della bottega di cui notizia di pittura praticata non è giunta, appare poco probabile. Trovare l’esecutore materiale della pittura dei mattoni è impresa pressoché impossibile dal momento che generalmente i documenti non restituiscono alcun riferimento dei loro impegni, fatta eccezione per alcune figure di rilievo: Andrea Pantaleo che nei primi trent’anni del secolo XVII firma diverse maioliche pervenute, Filippo Passalacqua e pochi altri decoratori come Diego Di Leo, fratello del nostro, di cui è nota una boccia da spezieria autografa, scomparso, per quanto riferisce Alessandro Giuliana Alaimo, nel 1673. Ed è fenomeno singolare dal momento che abbondano invece le notizie archivistiche relative ai comuni manipolatori dell’argilla. Una risposta si potrebbe trovare nell’ipotesi che i pittori di mattoni lavorassero per diverse officine della città reclutati “alla bisogna” senza impegno notarile. 

Un intervento di restauro di cui l‘intero Monastero urgentemente necessita -sede oggi dei Salesiani che si occupano dei ragazzi del quartiere dell’Albergheria - potrebbe restituire alla storia dell’arte e del costume un monumento di notevole interesse di cui si conosce ormai il fornitore, il probabile ideatore e l’anno di fabbricazione. Ulteriori ritardi potrebbero destinare l’opera, attestazione non secondaria di valori culturali appartenenti al nostro passato, ad irrimediabile perdita nel desolante irresponsabile abbandono del centro storico.  

Per quanto riguarda il repertorio iconografico, occorre avvertire che, non essendo in grado per motivi di sicurezza poter restituire l’intera visione delle opere, si forniscono le immagini di diversi particolari di rilievo.

 

(1) A.S.P, Notaio Andrea Lo Cicero, Vol. 10974, f. 316)  

 

(2) 1684 (31 ottobre) Not. Salvatore Miraglia, Vol. 428, f. 391

Mastro Antonino Di Leo stazzonaro civis huius felicis urbis Panormi si obbliga e pelli matri sorori Lorenza Ventimiglia abbatissa del Ven. Monastero di Santa Chiara di questa città a tutte spese e attratto e magisterio de lo ditto Di Leo fare tutta quella quantità di maduni di valenzia che il detto ven. monastero haverà di bisogno per servizio delli celli del nuovo dormitorio nuovamente fatto e per li passi delli detti celli quali l’habbiano d’essiri bene magistribilmente fatti ben stagnati et pinti giusta la forma della mostra tiene detta reverenda abbatissa s’obbliga quelli detto Di Leo consignare de hoggi innanti et successivamente continuare per tutti li 24 di dicembre p.v. dell’anno presente 8a indizione innante posti in detto monasterio itache la portatura l’habbia di pagare il detto Ven. Monasterio di patto. Et hoc pro pretio ad rationem once 1 e tarì 10 singolo centinario. Detta abbatissa promette di solvere a detto Di Leo consignando solvendo. Con patto che essendoci ciascheduno di mala qualità rutto e mal stagnato in tal caso quelli possa rifiutare di patto. 

Testi Pietro Ventimiglia e Salvatore Aloysio Giuliana.





REPERTORIO ICONOGRAFICO



Scena caccia cella A

Scena caccia cella B


Scena caccia cella B (part.)

Cornici e tralicci

Cornici

Conigli e canestri


Scena caccia cella A (part.)

Tralicci e cornice terminale (part. cella A)

Tralicci e cornice terminale (part. cella B)




lunedì 7 giugno 2021

Diego Di Leo stazzonaro palermitano pittore di maiolica

  Le prime notizie che riguardano Diego di Leo appartengono alle ricerche di Alessandro Giuliana Alaimo che fornisce la data del  matrimonio (7 settembre 1637) con una tal Francesca Montuoro e quella della morte avvenuta nel 1673. 




Da più approfondite indagini documentarie risulta che Diego, seppure ignota resti la sua data di nascita, apparteneva ad una famiglia di maiolicari, figlio di mastro Angelo, proprietario di stazzone, e fratello minore di Antonino, conduttore, insieme a Paolo Lazzaro di Naso, di un’officina palermitana di primordine che vantava come pictor di vaglia il monrealese Andrea Pantaleo. Nel buio di più dettagliate notizie biografiche, in un testamento, emerso dall’Archivio di Stato di Palermo, dettato nel 1662, Diego nominava la seconda moglie, Eleonora Lamberti, usufruttuaria della casa che aveva avuto in donazione da una cugina nel quartiere di San Giovanni dei Tartari, nella Contrada degli Stazzoni. E, come proprietaria, la figlioccia Ninfa Giuliana ancora bambina di due anni. Ma quel che più intriga la lettura di questo curioso documento è la singolare disposizione post mortem che contiene. Essa riguarda un quadro della Madonna delle Grazie dipinto da Diego su lavagna che fermamente intende destinare al Convento di Sant’Antonio da Padova fuori porta di Vicari "ad effetto che li padri debbano mettere nella portarìa a parte, et cu nesci o trasi in ditta portarìa l’abino di vedere per riverirla". Se i frati di Sant’Antonio non avessero accettato i patti, il quadro (non si sa di quale valore artistico) doveva, secondo l’insistita volontà di Diego, immantinente passare al Convento del Carmine alle stesse condizioni: “esponendolo detti padri a parte et ogni uno l’abia di salutare”. Dopo le testimonianze di questa carta notarile si perdono le tracce del decoratore senza figli anche se la possibilità di revoca delle disposizioni che il maiolicaro si riserva davanti al notaio, lasci pensare che non fosse esclusa la guarigione dalla probabile malattia che lo aveva convinto a fare testamento. Motivo per il quale non sembra oppugnabile l’ipotesi che la sua esistenza in vita si fosse protratta sino al 1673 anno che Alaimo indica come data della sua scomparsa. Il dubbio cronologico non esclude tuttavia che altrettanta attenzione meriti un altro documento del 1680 che indirettamente riguarda il nostro maiolicaro. In esso Eleonora Lamberti, ormai sicuramente vedova, chiede ai frati Carmelitani di poter cedere la casa, lasciatale in usufrutto da Diego, come deposito a un bottegaio disposto a pagare il censo annuale dovuto al convento, poiché, “come luogo scognito di abitazione essa non riusciva a percepire nessun utile, abitabile com’era solo da gente povera non in grado di pagare la pigione.  La notizia, che registra la perdita di valore dell’immobile di cui sarebbe diventata, a suo tempo, proprietaria la figlioccia, potrebbe attestare  il declino che in questi anni subisce il Quartiere dello Stazzone reso malsano dai fumi delle fornaci e il conseguente trasferimento domiciliare delle maestranze in luoghi meno degradati come le vie delle Pergole e dei Trappetazzi, più vicine alla porta di Sant’Agata, dove si trovano infatti domiciliati gli operatori della maiolica del Settecento a conferma e monito che siano da considerare “beni vuoti” quelli che si lasciano agli eredi. Se Diego non era riuscito ad assicurare un minimo di benessere alla moglie, né a riservarsi come pittore un posto di riguardo nel novero degli artisti col dipinto da esporre in bella vista nella chiesa, di Sant’Antonino o del Carmine che fosse, il suo nome è arrivato sino ai rari posteri che della materia s’interessano come decoratore di maioliche avendo firmato e datato una boccia da spezieria con l’immagine dell’Annunziata esistente in collezione privata. Sicché, essendo la morte “giusta dispensiera di gloria”, Diego Di Leo sembra essere passato alla storia non come artista del pennello, ma, più modestamente, come decoratore di maiolica, mestiere che inconsapevolmente con maggiore perizia dell’altro era stato forse in grado di esercitare.  E non sembra essere questo fenomeno inconsueto giacché è accaduto, anche in ambiti culturali più elevati, che, aspettandosi qualcuno la fama per i poemi, gli sia arrivata invece per i componimenti “di poco conto”.  Del fratello Antonino, fornitore, nel 1657, delle mattonelle da censo per l’Unione dei Miseremini della Chiesa di San Matteo sul Cassaro con l’immagine di una prospera anima purgante tra le fiamme è rimasto, ad oggi, un raro esemplare, anch’esso in collezione privata.  

martedì 18 maggio 2021

La cupola della Chiesa del Carmine all’Albergheria

 Indagine storico-artistica sul rivestimento di maiolica


di Rosario Daidone


In assenza di specifica documentazione scritta, la data del 1681, anno in cui fu ultimata la costruzione dell’edificiocon le limosine raccolte dal converso A ngelo La Rosa” (Gaspare Palermo, Guida etc. 1816) costituisce l’unico riferimento cronologico del rivestimento di maiolica della cupola della Chiesa del Carmine Maggiore di Palermo. Il mantello originale prevedeva un’orditura a tappeto dipinto di squame di colore azzurro e verde alternate; campi a spicchi di diversa larghezza contornati da piastrelle rettangolari e incorniciati da elementi longitudinali e orizzontali a treccia azzurra vivacemente bordata di bianco su fondo verde. Un elevato numero di piastrelle “ad attacco” in stile classico di cm. 17, 5 di lato molto probabilmente allestite nella prestigiosa officina di Antonino Di Leo che col fratello Diego, scomparso nel 1673, si era occupato di importanti forniture vascolari alle spezierie e che in questo stesso periodo riceveva l’incarico di fabbricare i pavimenti a disegno di alcuni edifici religiosi come quelli eseguiti per la Chiesa di Santa Chiara su un progetto fornito dall’architetto Paolo Amato (A.S.P. Fondo Monastero di S. Chiara, Vol. 402, ff. 31-35).

In un periodo che non è facile determinare, forse nel corso del Settecento,  vennero inserite nell’opera le figure degli emblemi dell’ordine carmelitano come risulta evidente dai tagli operati nel mantello originario per la loro collocazione e la diversa qualità cromatica degli inserti che rappresentano il Sacro Monte sormontato dalla croce dell’Ordine gerosolimitano custode del Santo Sepolcro.

Ma Ignorando le motivazioni che indussero gli operatori a non rispettare i criteri previsti dalle operazioni di restauro, appare ancor più evidente che l’opera risenta pesantemente dal punto di vista artistico degli interventi relativi alla sostituzione delle piastrelle accidentalmente cadute in diverse parti e nella zona più vicina al timpano effettuati con l’impiego di incongruenti mattoni di risulta recuperati da dismesse pavimentazioni in cui si nota la prevalenza di consumate piastrelle bianco-verdi dette a “onda di mare”. L’imponenza dell’opera nel suo originale elegante rivestimento loricato sicuramente dettato da un architetto, pur tollerando l’antica manomissione relativa all’inserimento degli emblemi, da considerare ormai come “storica aggiunzione”, essa resta gravemente deturpata dai vistosi più recenti rattoppi funzionali che, volendo evitare i rifacimenti, sarebbe stato opportuno eseguire con elementi di semplice terracotta o con tessere di unico colore neutro così come è d’uso per le parti mancanti. nei mosaici al cui genere le opere in commesso di maiolica appartengono.  

L’Ordine Carmelitano, nato in Terra Santa, fu presente in Sicilia fin dal XIII secolo. Ebbe nell’Isola vari personaggi di spicco come Alberto da Trapani (nato ne 1240) e Angelo da Licata (nato nel 1185) dipinti con i loro simboli (l gigli il primo, la palma l’altro santo), nelle due maioliche siciliane da farmacia del XVII secolo custodite nel Museo Pepoli di Trapani e in collezione privata. 

 

(L’Ordine continuò ad esistere con qualche difficoltà sino al 1866 quando una legge dello Stato Italiano ne dichiarò l’inutilità sociale e ne requisì i conventi. Tornarono nelle loro sedi alla fine della Seconda Guerra Mondiale).


 

Repertorio iconografico

Cupola (particolare)

 

 

Taglio del mantello per l’inserimento dello stemma

 

 

Particolare con l’inserimento di mattonelle improprie


 

 

Mattonella dei carmelitani con i simboli dei santi Alberto da Trapani e Angelo da Licata

 

 






Albarello del Museo Pepoli (Trapani) con immagine di Sant’Alberto

 




Albarello (recto e verso) con immagine di Sant’Angelo da Licata

 









Copertura a squame di maiolica della cupola della chiesa di Santa Chiara (Napoli)

 








Disegno della squama risolto in dodici mattoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 27 aprile 2021

LE FOTOGRAFIE DELLE MAIOLICHE



L’osservazione potrebbe essere applicata a tutti gli oggetti che hanno un volume tridimensionale e che la riproduzione fotografica riduce a una sola piatta dimensione. Ma se si prendono in considerazione le antiche maioliche apotecarie, oggetto di collezionismo e di custodia museale, si può affermare che le loro fotografie non possono per molti versi essere considerate immagini fedeli agli originali. L’oggetto fotografato, a colori (atto necessario per le maioliche) non riesce infatti a rendersi credibile dal punto di vista cromatico per il limitato numero di colori di cui la fotocamera dispone; la fotografia dell’oggetto, Illuminato dall’operatore per un’esposizione adatta alla ripresa, non tiene infatti conto della contingenza in cui esso realmente si trova nell’ambiente in cui direttamente di solito si osserva. Il vaso di maiolica guardato in fotografia non è soltanto in grado di dichiarare la sua dimensione, ma neanche la quantità e la qualità di alcuni particolari che si potrebbero invece apprezzare attraverso l’esame suo diretto. La fotografia esclude il tatto che può rivelare aspetti importanti del manufatto ceramico: la levigatezza serica della superficie, le piccole asperità, l’incorporazione ineguale dei colori nello smalto, tanto per citarne alcuni. Se con un oggetto metallico (una moneta) se ne accarezza la pelle, ci si accorge che la fotografia nega alla conoscenza anche l’esperienza dell’udito che spesso rivela gli interventi di restauro ben nascosti alla vista: la parte restaurata non “suona” infatti alla stessa maniera argentina dal resto della superficie cui l’interno cavo, come negli strumenti musicali, fa da cassa armonica. La storia del collezionismo dimostra che, manufatti ritenuti autentici in fotografia, risultano, all’esame diretto, false riproduzioni (ma non è escluso che possa succedere il contrario) o pesantemente restaurati. Se si tiene poi conto delle correzioni che i mezzi moderni d’intervento mettono a disposizione attraverso i programmi d’informatica, gli inganni fotografici sono dietro la porta e occorre accontentarsi dei giuramenti. Occultare in malafede i difetti di un esemplare, esaltarne o falsarne i colori è un gioco da bambini. Ecco perché è necessaria molta prudenza nell’acquisto di una maiolica alle aste rassicurati soltanto dalle fotografie fornite dai cataloghi. Dovendosi lo studioso rassegnare per motivi contingenti all’esame attraverso l’immagine riprodotta, un vantaggio le fotografie potrebbero offrirlo quando la maiolica viene ripresa e mostrata da ogni lato, compreso il fondo, operazione naturalmente difficile, se non Impossibile alla visione diretta. Se attraverso diverse foto, le quattro facce dell’oggetto possono essere contemporaneamenteesaminate su una stessa pagina, non è vantaggio di poco conto che supplisce però, solo in parte, alle altre pesanti manchevolezze delle immagini. Attraverso la fotografia, come accade per le persone (a meno di essere convinti lombrosiani) non si è dunque in grado di conoscere il “carattere” vero delle maioliche. Fortemente illuminati, gli antichi reperti davanti all’apparecchio fotografico perdono, come spesso accade alle persone in posa, di autenticità. Contenitori di farmaci, le maioliche sono state ospitate per secoli dalle botteghe poco luminose degli speziali, rischiarate, la sera, dalle fiammelle tremolanti delle candele. Isolate nell’esposizione delle vetrine dei musei sotto la luce delle lampade, le opere perdono ugualmente parte del loro fascino. Allontanate dall’ambiente “oscuro” delle antiche botteghe e deprivate della compagnia delle consorelle del corredo, non offrono la stessa emozione, specialmente quando se ne vede qualcuna persa sopra il mobile di una casa privata o nella bottega di un antiquario affollata di oggetti. In un ufficio scolastico mi è capitato anni fa di vedere un albarello di Caltagirone del Settecento posato accanto ad una macchina da scrivere come contenitore per le matite. Nella Mostra, tenuta a Palermo nel Palazzo Abatellis (ottobre- gennaio del 2006) grande successo di pubblico riscosse la nostra decisione di esporre diverse maioliche in uno spazio che, grazie all’antico stivile posseduto dal Museo e al lavoro delle maestranze, ci permise di ricostruire, con una certa verosimiglianza, la parte di un’antica spezieria dove le maioliche potessero essere osservate insieme nell’ambiente proprio per il quale furono create (cfr. Aromataria, Cat. A cura di R. Daidone, Palermo 205). E’ il fascino che possiede e l’emozione che suscita la spezieria di Roccavaldina non soltanto per la bellezza delle singole opere, ma soprattutto per l’ambiente rimasto intatto dalla fine del XVI secolo. Anche se accompagnata da una descrizione scritta, la fotografia appare sterile e di poca efficacia col pericolo che, considerata a sé stante, l’opera ritratta, deprivata della sua funzione e della residenza, perde gran parte del valore di documento necessario, spesso insostituibile per la conoscenza non solo degli antichi rimedi per la salute, ma anche come testimonianza delle credenze, dei gusti e delle mode di un passato assai povero di immagini.  E però gli studi si fanno spesso sulle fotografie sicché negli anni si è creato un mondo parallelo di carta, nato dall’attenzione alle singole realizzazioni ignorando gli ambienti di destinazione e l’uso che era loro riservato. Ci si è accaniti con sottili disquisizioni sull’attribuzione, spesso forzata, agli autori e alle officine di appartenenza, come se, squartando un corpo, si indirizzasse l’interesse esclusivamente alle singole parti. Ricreare gruppi omogenei per area di produzione con il raduno degli esemplari pervenuti potrebbe essere opera meritoria dei Musei, purché non accada, come succede in qualche istituzione, che le numerose opere di cui dispongono vegano relegate alla polvere dei depositi.    

     

giovedì 22 aprile 2021

Un albarello nasitano del XVII secolo




Gli abitanti ebrei di Naso (Messina) furono antichi allevatori di bachi e commercianti di seta almeno fino al 1664 quando persero con Messina ribellatasi alla Spagna, l’antico monopolio.
Nell’ultimo quarto del ‘500 La famiglia dei Lazzaro, nasitani di origine ebraica, cercò di coniugare -come si evince dai documenti- il commercio della seta con la produzione della maiolica.
I Fratelli Geronimo, Cono e Paolo, trasferitisi a Palermo, nel 1591, animarono con immediato successo un’officina di maioliche nel quartiere dell’Albergheria dove allestirono, oltre a pavimenti di maiolica decorata per la pubblica committenza, numerosi corredi da spezieria di stile faentino. Cono Lazzaro, impegnato anche nel commercio della seta, tornato al paese natio dopo la chiusura dell’officina in seguito alla morte dell’anziano fratello Geronimo nel 1607, potrebbe essersi riunito agli zii (Paolo o Giovanni Lazzaro) attivi da tempo nella produzione delle ceramiche nel quartiere di Bazia.
Il fratello minore, Paolo -rimasto a Palermo -come erede dello stazzone del suocero Antonino Oliva, insieme al decoratore monrealese Andrea Pantaleo alle sue dipendenze, diventerà indiscusso protagonista dell’arte della maiolica siciliana sino alla morte avvenuta nel 1638.
L’albarello, assegnabile alle officine nasitane per inconfutabile assimilazione ad una boccia in cui è segnato il luogo di produzione (Immagine in Governale, Recto Verso), reca nel medaglione la figura di un personaggio barbuto con cappello e mantellina neri intento all’esegesi di un testo, come si evince dalla posa e dall’atteggiamento “didattico” che assume. Non è difficile immaginare che il personaggio dipinto intenda raffigurare un Rabbino che illustri i testi sacri dal momento che l’interpretazione della figura ben si collegherebbe alla tradizione religiosa della numerosa famiglia dei figuli Lazzaro e alla produzione di una loro officina attiva a Naso nei primi anni del Seicento.   

venerdì 9 aprile 2021

Renoir e le maioliche di Caltagirone


Non so se correva più o meno velocemente di ora, ma sono sicuro, rivendendo le date delle mie pubblicazioni sull’argomento, che era l’anno 2005 quando ammirando con attenzione il dipinto di Renoir
 “Jeunes filles au piano”mi accorsi non senza sorpresa, divenuta, come si può immaginare, motivo di piacere e orgoglio, che nella scena, sul pianoforte cui è appoggiata una delle due ragazze pronta ad allietare l’altra con la musica, era posato un vaso antico (boccia da spezieria) di maiolica di Caltagirone colma di un mazzo di fiori.
 

Da una immediata ricerca sulle opere del pittore impressionista (Limoges 1841- Cagne sur Mer 1919) mi accorsi che in tre delle cinque repliche del quadro, custodito al Museo d’Orsey di Parigi, erano dipinti altrettanti vasi calatini, come se nelle poche varianti pittoriche delle repliche all’artista interessasse particolarmente la presenza quasi ossessiva di quegli oggetti preziosi. Le inattese esistenze ceramiche nelle tele di Renoir costituirono per me, studioso della materia, il punctum cui pensavo di rivolgere la mia attenzione e di cui nessuno, meglio attrezzato di me, si era curato, a quanto pare, nei numerosi saggi sull’opera del pittore.   

Renoir era stato a Palermo nel gennaio del 1882 per eseguire il ritratto del musicista Wagner che, all’Hotel delle Palme, si accingeva ad ultimare il Parsifal. Immaginai allora che Renoir, dopo essere stato a visitare Monreale, gironzolando per la città, in attesa di essere ricevuto dallo scontroso musicista, avesse notato nella vetrina di un negozio d’antiquariato palermitano le maioliche che tanto lo interessarono da decidere di acquistarne alcune e spedirle in Francia all’indirizzo del suo studio. 

Non si poteva dubitare che, a dieci anni di distanza del suo viaggio a Palermo, durante la creazione delle Jeunes filles, nel 1892, la maiolica dipinta non fosse presente davanti al suo cavalletto, così precisa è la conformità dell’oggetto rappresentato rispetto alle maioliche di Caltagirone, sia nell’aspetto volumetrico che nella decorazione. Non appare possibile infatti che potesse dipingere “a memoria” data la perfetta coincidenza identitaria tra l’oggetto e la sua rappresentazione pittorica. Ma la convinzione che l’interesse artistico per le maioliche siciliane fosse legato al suo viaggio a Palermo durò fino a quando, esaminando altre opere del pittore, mi accorsi che un quadro con fiori dentro una boccia con rosette di buon-augurio e ramges su fondo blu di fabbricazione calatina era stato eseguito intorno al 1878, quattro anni prima dunque del suo viaggio a Palermo! Costretto a rivedere con una certa delusione la mia ipotesi alla quale mi ero calorosamente affezionato per il fascino che la coincidenza tutta siciliana suscitava, non restava che tentare altre vie per giustificare la sorprendente presenza in forma di pittura delle ricorrenti maioliche siciliane che, nella loro solida esistenza, dovevano, sicuramente, essere presenti nello studio del pittore. 

E’ noto che da giovane Renoir aveva lavorato come decoratore di ceramica nelle famose officine di Limoges, sua città natale, dove, come modelli e fonte d’ispirazione, dovevano probabilmente esistere delle  maioliche antiche. Ma il lavoro di Renoir a Limoges era stato abbandonato da anni e la tesi risultava anch’essa poco agibile se non del tutto infondata dal momento che nel periodo in cui il pittore dipingeva le Jeunes filles non abitava più nella città.

 Tra le notizie biografiche più dettagliate è riportato che un suo amico, il padre delle due ragazze che posarono per le “jeunes filles”, fosse un appassionato collezionista di maioliche per cui l’ipotesi più probabile al momento potrebbe restare quella di eventuali prestiti delle maioliche siciliane fatti dall’amico al pittore perché se ne servisse come modelli per i suoi quadri. 

I motivi di tanta attenzione, così insistita, tanto che dal 1878 al 1914 Renoir dipinse, quasi fino alla sua morte, almeno sei quadri con i vasi di Caltagirone, da parte di un maestro del colore e uno dei più autorevoli rappresentanti dell’Impressionismo appaiono così chiari che non necessitano di giustificazione artistica o psicologica. Architetture così equilibrate, blu così profondi, verdi squillanti, bianchi purissimi e gialli così intensi come quelli che i maestri calatini del Settecento seppero dare alle loro maioliche non è facile incontrarne nelle realizzazioni di altre fabbriche europee che pure godono di qualche citazione in altri dipinti di Renoir.       

La mia scoperta, conosciuta attraverso un articolo scritto per la rivista “CeramicAntica” e la pubblicazione nel volume “La Ceramica Siciliana” per l’editore Kalos nel 2005, suscitò l’interesse del Museo internazionale delle Ceramiche di Caltagirone che dedicò all’evento inaspettato una vetrina con il mio articolo nella rivista corredato da una riproduzione del quadro di Renoir e da un paio di maioliche, corrispondenti a quella dipinta nella tela, custodite nel Museo.

Ma le notizie di contenuto artistico non hanno, a quanto pare, gran lena e non godono della stessa velocità di diffusione di quelle d’altro genere o di cronaca per cui il 27 febbraio del 2012 (sette anni dopo la mia scoperta) un articolo dal titolo Mistero al Museo della ceramica di Caltagirone di una non meglio nota Giorgia Turco, incuneava l’evento, ormai non più fresco di giornata, tra la citazione di una vera eminenza nell’ambito della maiolica come il mio amico Antonino Ragona e la confezione della tesi di laurea in lettere e filosofia di una ragazza dell’università di Palermo. La signora scriveva: “… grazie alla tesi di laurea di Lucia Ajello, neolaureata in lettere e filosofia a Palermo e alla rilettura de “La Ceramica siciliana” di Rosario Daidone pubblicato grazie (sic!) agli studi del Prof. Antonino Ragona, ceramologo di fama internazionale (…) è stata scoperta la presenza di ceramiche calatine del XVIII secolo in tre delle cinque versioni delle “Jeunes filles au piano” (…). 

Che dire? Intempestiva improvvisazione o vera e propria disonestà intellettuale? 

Fortunatamente lo stesso fenomeno non si è verificato negli studi internazionali più accreditati. In un lungo articolo francese ricco di immagini del 12 maggio dello stesso anno (blog Bon sens et deraison), a proposito della mia scoperta si legge: …”C’est un ceramologue réputé et éminente, Rosario Daidone, qui a lancé “l’affaire”. Se trouvant devant la peinture de Renoir “Jeunes filles au piano” son regard fut attiré par le vase empli de fleurs posé sur le piano: “mais c’est une boccia de Caltagirone !..

Se ci fosse bisogno di ribadirlo, gli esempi servano a confermare che nessuno si illuda di essere profeta in patria, specialmente nella nostra amata Italia dove a chiunque potrà capitare, (come a me è capitato talvolta con le scuse tardive del responsabile dopo le mie contestazioni) di leggere interi periodi delle mie pubblicazioni trascritti da qualcuno senza l’uso delle virgolette né l’ombra di una citazione nel tentativo di spacciare per proprie le fatiche altrui.