Di forma circolare, il vassoio palermitano è interessato da un’ampia scena dipinta in monocromia con la rappresentazione dell’amore di Angelica e Medoro colti nell’atto di incidere i loro nomi nel tronco di un albero.
Il tema cantato dall’Ariosto nell’Orlando Furioso (canto XIX, ottava 36) è risolto in chiave realistica inserito com’è in un paesaggio minutamente descritto con alberi, case e montagne sullo sfondo che alla scena assicurano profondità di campo.
Due sono i modelli cartacei del soggetto ispiratore: le incisioni riprese entrambe da un dipinto di Teodoro Matteini (1754-1831). L’una del napoletano Raffaello Morghen (1758-1833), l’altra di Giovanni Folo (1764-1863) che è custodita anche a Napoli nella collezione di stampe della Certosa di San Martino.
Alla stessa fonte iconografica attinge il vassoio ovale della Fabbrica Del Vecchio di Napoli realizzato anch’esso nel primo Ottocento, probabilmente dopo l’opera dell’Opificio palermitano di cui conosciamo la data di chiusura avvenuta in seguito alla morte del fondatore nel 1819.
Mentre la realizzazione dell’Opificio del Barone Malvica si attiene fedelmente alla fonte iconografica anche dal punto di vista coloristico, il vassoio napoletano punta su una squillante policromia e adotta alcune varianti di non poco rilievo: la presenza della scritta sul tronco dell’albero ripetuta sulla base in cui siedono i due amanti appena percepibile nelle due incisioni; l’enfatizzazione della fiaccola che agita Cupido dietro l’albero e, ancor più evidente, l’allungamento della pianta fiorita in primo piano che arriva quasi a toccare le braccia dei due personaggi. A indicare il discostamento dal modello nella rappresentazione partenopea della scena, la vegetazione non sembra tenere in conto la fonte.
L’esuberanza stilistica che caratterizza il vassoio napoletano contempla anche una ricca minuta decorazione della tesa affidata a tre registri concentrici di ricercata eleganza. L’opera palermitana ricorre invece qui al traforo e ad una più semplice decorazione arricchita dalle dorature.
La fedele esecuzione del vassoio palermitano, leggermente più piccolo dell’altro, con ragionata sicurezza è attribuibile allo stesso direttore della Fabbrica della Rocca, Giuseppe Sebastiani, “professore di scultura, stamperia, modello e pittura” al servizio del barone sin dal 1801. Il vassoio napoletano è uscito invece dalla fornace della Fabbrica Del Vecchio come indica la marca FDV e lettera N incussa nel verso, ma non attribuibile in particolare ad uno dei maestri decoratori della stessa famiglia.
Al di là di ogni giudizio comparativo di natura artistica, desta particolare interesse l’aspetto relativo agli stretti rapporti culturali che legavano i due poli del Regno sotto l’egida di Sua Maestà Ferdinando di Borbone che le concomitanti opere testimoniano, la rivisitazione del tema amoroso della poesia rinascimentale nell’Ottocento romantico mediato dalle opere pittoriche, in particolare dalle stampe in rapida circolazione nell’Italia preunitaria. L’acquaforte ispiratrice di Raffaello Morghen fu eseguita (a Firenze o a Roma) intorno al 1795, quella diGiovanni Folo, nato a Bassano del Grappa, ma operante a Roma, nel marzo del 1801. Esse sono tratte, come si è detto, dallo stesso dipinto che il pittore Matteini aveva realizzato in tela a godimento privato del signor F.A. Hervey, conte di Bristol.
La rappresentazione del soggetto erotico che poteva suscitare scandalo nella diffusa mentalità codina dell’Ottocento per le nude bellezze in primo piano dell’ammaliante Angelica, destinata, nelle stampe, forse a delizia “per soli uomini”, non impedisce alle due fabbriche meridionali di farne oggetto di ricercata aperta fruizione nei salotti di una spigliata borghesia parteno-palermitana divertita dai pettegolezzi sui tradimenti amorosi frequenti nella stessa casa regnante e adusa alla libertà dei costumi degli ospiti stranieri, lord e lady inglesi, favorita dal caldo clima mediterraneo, confortata dalle immagini erotiche svelate dagli scavi di Pompei. Nelle riunioni salottiere del primo Ottocento qualcuno, pensando ai versi del Meli, non avrà fatto a meno di ammirare, tra una chicchera di caffè o un bicchierino di rosolio offerti dalla padrona di casa, il provocante profilo di Angelica che è il fulcro malizioso della scena dei due vassoi.
Considerando il diffuso amore per l’erotico tutto meridionale lontano dalla volgarità, d’antica tradizione culturale, capace di rendere libere e liete le adunanze, non è una forzatura interpretativa pensare che rientri in questa caratteristica del costume il fatto che il Gattopardo narrando le vicende siciliane del secolo si apra con le nereidi dipinte nel pavimento di maiolica della villa nobiliare che corrono all’abbraccio e al bacio. E non è un caso che, nell’ampia possibilità di scelta offerta dalle favole classiche, il Palazzo sant’Elia a Palermo, nel secondo Settecento scegliesse per il pavimento di maiolica del suo salone la scena di Pan che spia le nude ninfe al bagno. Non sorprende leggere quindi nei documenti dell’Archivio di Stato che una signora dell’aristocrazia palermitana trascinava il marito davanti al notaio perché si mettesse nero su bianco la sua disponibilità a seguirlo nella residenza di campagna soltanto a patto che si facesse ritorno in città all’apertura delle danze nel Teatro di Santa Cecilia che un marchingegno consentiva, abbassandone il palcoscenico, di trasformarlo in una affollata sala da ballo. D’altronde più o meno nello stesso periodo il viceré di Sicilia Marc’Antonio Colonna, pur intestando la porta della città alla moglie Felice, non si peritava di fare eseguire una statua di sirena in bronzo con le fattezze della sua amante, Eufrosina Corbera, da porre sulla fontana lungo la passeggiata della marina dove ogni cocchiere, per discrezione, era invitato, di sera, a spegnere i lumi della carrozza come osservavano stupiti di tanto libertinaggio algidi viaggiatori stranieri. Né si pensi che al carattere mediterraneo non appartenga la Calabria, a torto considerata, tra Sicilia e Campania, una specie d’intermezzo del Regno, se in un diffuso detto antico esprimeva il suo inno alla gioia di vivere esclamando senza eufemismi di sorta, “Viva lu munnu, lu culu e lu cunnu”!
Partire dalla descrizione di due vassoi di maiolica per adire ad una seppur breve e incompleta considerazione del carattere e dei costumi di un popolo è forse un’operazione assai rischiosa e discutibile, ma questo credo debba essere il tentativo di chi, uscendo dalla generica rappresentazione strettamente legata alla materia, consideri i reperti, seppur recenti, come una testimonianza, tassello di un ampio mosaico, che aiuti a meglio comprendere il passato.
Galleria Regionale della Sicilia, Palermo, inv. 6778
Palermo, primo o secondo lustro del XIX sec.
b) Vassoio ovale, diam. cm. 36,8/28,8
Museo Duca di Martina, Napoli
Napoli, primo quarto del XIX sec.
Marca “FDV con lettera N” incussa nel verso
b) Giovanni Folo (1764-1863), Angelica e Medoro acquaforte