sabato 21 gennaio 2023

Il commercio delle ceramiche nel Mediterraneo. Operatori e mercanti dalla seconda metà del XV al XVII secolo di Rosario Daidone




 


Le notizie sul commercio delle maioliche antiche e la loro circolazione nel Mediterraneo fornite dai documenti del periodo di cui ci occupiamo si rivelano come utili elementi di apprezzabile interesse se i rapporti stabiliti tra produttori e mercanti interagiscono con l’esame degli inventari disponibili nei quali è possibile individuare varietà e provenienza delle opere acquistate dai fruitori. Coniugazione necessaria a stabilire e chiarire nella dinamica dei flussi produttivi i mutamenti dei gusti e delle mode legati alle strategie commerciali che si verificano al variare cronologico delle forniture. Per l’esattezza dei luoghi di provenienza un limite da tenere in considerazione è che nei documenti consultati l’indicazione del luogo di esportazione dei manufatti non è sempre coincidente con quello di produzione per cui le maioliche “di Genova” potrebbero essere state fabbricate a Savona o ad Albisola, quelle “di Napoli” a Vietri o Castelli e sono spesso indicati i porti di Ancona, Livorno o Pisa per le opere allestite nelle Marche o in Romagna. La circolazione dei manufatti per motivi legati all’assenza di strade carrabili, ai disagi e ai pericoli che s’incontravano nelle vie di terra, avvantaggiavano la navigazione non esente tuttavia dei disagi provocati dalle scorrerie corsare contro le quali senza durevole successo si impegnava nel ’500 la flotta di Andrea Doria al servizio dell’imperatore Carlo V1.

I mercanti siciliani che si recavano a Napoli o nell’Italia centro-settentrionale, talvolta non prima di aver fatto testamento e muniti di lettere di credito, preferivano utilizzare i porti del Tirreno protetto dalla Spagna, ritenuto meno pericoloso dello Jonio e dell’Adriatico. Dopo lo sbarco, per raggiungere la Romagna, le Marche o Venezia dove erano disponibili, oltre alle maioliche, vetri, preziose mercanzie e spezie provenienti dall’Oriente, essi potevano utilizzare tratti della Via Francigena e delle antiche strade romane, in parte ancora praticabili. Accompagnate da regolari contratti collettivi di assicurazione in cui ogni interessato versava una quota relativa al valore della sua merce, numerose erano le navi battenti bandiera genovese stivate di diverse mercanzie almeno sino alla fine del ’500. Il commercio marittimo potrebbe in parte spiegare la diffusione in Sicilia, per la sua posizione geografica al centro del Mediterraneo, delle opere allestite nelle fabbriche peninsulari secondo una tesi, a prima vista paradossale, che era più agevole e conveniente acquistare vasellame proveniente dal mare anziché dalle officine locali se pur fossero pronte, nel Quattro e nel Cinquecento, a soddisfare l’esigenza della clientela, gli speziali in particolare divenuti rigorosamente attenti al prestigio delle loro botteghe per l‘importanza raggiunta nel campo della farmacopea europea dovuta agli antichi rapporti con l’oriente e alla frequenza di un numero straordinario di clienti in arrivo o in partenza nei porti siciliani. Il fenomeno delle importazioni è attestato dai numerosi acquisti fatti nelle officine di Genova e Napoli, di Urbino, Casteldurante e Faenza nel corso del XVI secolo.

Facendo un passo indietro occorre osservare che, per gli stessi motivi uniti alle strategie economiche della Spagna, nel secolo precedente le maioliche fabbricate nella nazione dominante si trovano enumerate negli inventari, come quello del 1455 dell’ancor modesta bottega palermitana di Giovanni De Medico, in cui esse sono affiancate da pochi prodotti locali compresi gli Oglialori (bricchi) virdi fabbricati a Polizzi2. La crescente richiesta di manufatti pregiati dovuta alle mutate condizioni socioeconomiche e all’incremento delle cure mediche in corso di sviluppo, non poteva evidentemente essere soddisfatta dall’officina palermitana di Francesco Jannitello che alla fine del ’400 fabbricava ancora semplici vasi “stagnati di dentro e di fuori” prive di decorazione. I manufatti spagnoli della seconda metà del ’400, come le piastrelle da pavimento di cui restano reperti nella Chiesa di San Vincenzo ad Aidone e nel castello di Pietraperzia e i vasi delle spezierie siciliane del XV secolo, erano così diffusi che “mursia” e “valenza” erano i nomi ricorrenti a qualificare la maiolica, prima che si imponesse con le massicce acquisizioni romagnole la denominazione di“faenza”. Resiste tuttavia la definizione spagnola in un inventario del 1556 in cui la citazione di una “tazza di Ancona di mursia” prodotta quindi nella Marca, (Pesaro o Urbino) mette in evidenza il perdurare della vecchia definizione a indicaregenericamente i prodotti stagnati3. A scanso di errate attribuzioni occorre osservare che l’etichetta è ancora usata sino alla fine del ’500 come si evince dall’inventario dell’infermeria dell’Ospedale di San Bartolomeo di Palermo in cui si trovano elencati, nel 1580, un giarrotto di mursia, mafarati (piatti grandi), un piattello di mursia azzolu e bicchieri di mursia bianchi di evidente fabbricazione italiana4. L’insistita chiamata a testimonianza dei documenti palermitani non autorizza a credere che le maioliche d’importazione fossero solo appannaggio delle città costiere, giacché esse raggiungevano la provincia e i piccoli centri siciliani come attestano i documenti del 1556 di un’aromateria di Ciminna, paese dell’entroterra, dove sono elencati vasi di Faenza, di Genova, di Venezia, di Napoli e di Montefusco (Avellino). Allo stesso commercio era interessata la Sicilia Orientale se nel monastero dei Benedettini di Catania5nello stesso periodo abbondavano le maioliche di medesima provenienza. I manufatti bianchi di Montefusco, che non godono ancora sufficiente fortuna di studio nonostante la ricorrenza archivistica, erano preferiti ai vasi di fabbricazione isolana evidentemente più costosi per inadeguata specializzazione produttiva ancora organizzata come occasionale attività a latere degli antichi stazzoni di laterizi.

Le numerose importazioni dai centri italiani trovano ampio riscontro nella spezieria palermitana all’insegna del pellicano di Vincenzo De Marino (VDM) che nel 15586, in un elenco di 370 vasi in cui non è presente alcun prodotto siciliano, contava 141 maioliche di Genova, 84 di Napoli, 41 di Valenza, 34 di Pisa, 21 di Damasco, 3 di Mursia (in questo caso probabile reliquato), una di Urbino e 45 di Faenza. Queste ultime riferibili ai reperti con la sigla VDM, iniziali dello speziale e non dell’autore, sono stati impropriamente assegnati al presunto vasaio Vincenzo Di Marco per coincidenza di sigla ritenuto, senza riscontri documentali, operante a Palermo7.

Le numerose opere raccolte nei primi anni del Novecento dall’antiquario Giuseppe Spanò, passate da un’asta palermitana, organizzata da Giuseppe Sarno nel 1933, testimoniano della capillare diffusione in Sicilia dei prodotti rinascimentali di origine peninsulare. Mercanti della “nazione genovese” come Giovan Battista e Ambrogio Pendola, Giovanni Brame, Giovan Battista Castruccio, Ambrogio Besaccia, Negrino Berritta, Nicola Canigia, Pietro Merlo, ai quali occorre aggiungere, come vedremo, anche Cesare Candia, in Sicilia possedevano palazzi, depositi e botteghe, nel 1480 si erano riuniti in pia confraternita nel Convento palermitano di San Francesco d’Assisi, fabbricheranno più tardi a Palermo la loro chiesa dedicata al culto di San Giorgio, sono gli incontrastati protagonisti del commercio mediterraneo finanziariamente supportato dalle banche anch’esse di marca ligure8. Tra i commercianti i Brame ebbero un ruolo di primo piano nella compravendita dei prodotti figulini. Giovanni era proprietario di un’importante bottega di varie mercanzie e oggetti d’arte ancora oggi individuabile nel Cassaro. È registrata la sua presenza dal 1544 al 1546 a Faenza per l’approvvigionamento di maioliche nell’officina Mezzarisa9. Come noto grazie alle ricerche archivistiche palermitane, è il testamento dettato prima della partenza che sottolinea la sua consapevolezza dei rischi che i viaggi comportavano. Abbondano nelle carte le transazioni a suo nome ed è nota la sua scomparsa nel 1587 quando venne redatto l’inventario dell’abitazione e della bottega in cui si trovano citate numerose maioliche da mensa destinate alla vendita e una targa tenuta in particolare considerazione di cui si dirà più avanti. Né meno nota è l’attività di Ambrogio Rocco detto Pendola, figlio del mercante Giovan Battista, con bottega nella Piazza Marina, attivo nella prima metà del ’500. Tra il dicembre del 1538 e il mese di marzo del 1539 si trova a Urbino per acquisti nella bottega di Benedetto Merlini insieme a Nicola Panezio anch’egli proveniente da Palermo. Di particolare interesse risulta l’elenco delle maioliche ordinate per le dettagliate descrizioni che secondo il contratto esse dovevano possedere a richiesta del committente 10.

Altro instancabile intermediario, Nicola Canigia, il 24 novembre del 1548 si trova a Casteldurante nell’officina di Ubaldo della Murcia per una serie di acquisti, comprese sei “fontane”11 a rilievo di cui consegna il progetto con decorazioni di “storie antiche”; Il 26 novembre stipula un contratto col maestro Angelo Picchi per vasellame decorato “a trofei” e “alla veneziana”; il 22 febbraio del 1550 commissiona ancora a Ubaldo della Murcia, evidentemente specializzato in questo genere di realizzazioni, tre fontane dipinte e a rilievo da consegnarsi a Firenze da dove, unite ad altre merci, sarebbero state indirizzate al porto di Livorno per la navigazione verso la Sicilia da dove le navi sarebbero tornate cariche di grano, zucchero da canna e sale. Dal 22 al 26 febbraio dello stesso anno il mercante ordina a Luca Picchi, suocero di Ubaldo, una grande quantità di vasellame tra cui albarelli decorati “a trofei”,” a quartieri” e, insistentemente, “alla veneziana”, uno stile che doveva essere particolarmente gradito alla clientela isolana come per molto tempo sarà affezionata alla decorazione delle panoplie. Il 25 febbraio il maestro Picchi gli promette di realizzare 300 pezzi per una sola spezieria di cui Canigia fornisce i disegni avuti dallo speziale al quale era destinato il corredo. Il giorno appresso Angelo Superchina s’impegna di fornirgli altre numerose maioliche tra cui 25 albarelli decorati ancora “alla veneziana”12. Ma non era difficile che per gli acquisti, oltre ai mercanti, si muovessero gli stessi speziali come testimonia la presenza tra l’agosto 1562 e il gennaio del 1563 del palermitano Andrea Boeri a Casteldurante per ritirare 400 vasi già ordinati ai maestri Angelo e Ludovico Picchi (fig. 1). Andrea apparteneva ad una potente famiglia di speziali proprietaria a Palermo di diverse botteghe che facevano capo a quella del padre, Pietro, più volte consigliere della maestranza, sita nella via Bandiera. Alcuni preziosi reperti facenti parte del loro corredo sono stati individuati da tempo e da anni se ne sono occupati gli studi. Andrea come aromatario è citato in diversi atti palermitani dal 1568 al 1588 per pagamenti di denaro a Giuseppe Berritta, altro genovese attivo nel commercio delle spezie provenienti dalla città di Messina che per posizione geografica più agevoli contatti aveva con l’Oriente. L’attività dei Boeri si estende sino alla prima metà del XVII secolo con l’erede Paolo citato in un atto palermitano del 1632. Lo stemma delle loro spezierie dipinto sui vasi pervenuti è costituito da due iconografici elementi divisi da una banda trasversale: nella parte superiore la torre è una chiara rappresentazione dell’elemento cardine della scienza alchemica, l’atanor; nella parte inferiore la figura di un bue allude al loro cognome.

Non meno interessante è l‘atto notarile stipulato a Palermo tra lo speziale Galieno Castrogiovanni di Ciminna e il mercante Giovan Battista Castruccio, genero dello scomparso Giovanni Brame che l’8 luglio del 1556 si impegna di fare eseguire “a Casteldurante oppure a Faenza” un corredo di 316 vasi. L’unicità del documento palermitano consegnato al mercante risiede nella minuta descrizione dei singoli contenitori, dei soggetti che vi si dovevano dipingere, delle forme, delle misure date dai segmenti di spago allegati e delle decorazioni secondarie che essi dovevano possedere secondo modelli in carta fatti fare dal committente sull’esempio del corredo Boeri. In merito ai soggetti suggeriti dallo speziale per i vasi da eseguire occorre sottolineare la conoscenza che i committenti siciliani avevano del mondo classico, dei cantàri medievali e della letteratura coeva. Non è motivo di sorpresa trovare, tra le figure di Mesue e Avicenna, quelle di cardinali e diavoli destinate ai medaglioni, i ritratti di Andrea Doria ottantenne e del nipote Gian Andrea ragazzo di 17 anni, se si tiene conto della fama raggiunta dall’armatore genovese nella protezione delle coste13. La data della consegna dei vasi, stabilita per l’aprile del 1557, è indicativa dei tempi occorrenti alla lavorazione e del periodo di attesa del mercante nelle officine a sorvegliarne l’allestimento. La notizia che venivano inviati dai committenti i ritratti dei personaggi da dipingere nelle maioliche lascia pensare che, in altre occasioni, l’effigie dell’aromatario Garillo e la caricatura del Pittore Francesco Potenzano detto Cicalone dipinti in due noti reperti di collezione privata14 possano essere stati eseguiti in officina faentina, e non a Palermo dal presunto Vincenzo Di Marco, come suggerisce lo stile della decorazione di supporto delle due opere.

Per conoscere forme e repertorio figurativo pretesi dai fruitori in questo periodo è utile fare riferimento alle “giarrotti con manichi a leone con suoi figorette abbaxio, con suoi personaggi e cartochio votato”; agli “oglialori con vucchi larghi con manichi e piczi a vucca d’animali. lavorati a frixo, voschi, foglachi (fogliame) et animali di ogni sorta e toccati di colori diversi di maiolica fine con li figuri sani” caratteristiche che si ritrovano negli esemplari raccolti in Sicilia passati dall’asta Sarno15 che testimoniano delle consapevoli esigenze dei committenti e, in seguito, del qualificato collezionismo siciliano. Un altro importante corredo proveniente dal mare, è quello della farmacia palermitana di Giuseppe Fulco allestito a Casteldurante cui appartiene un albarello datato 1562 con la figura di un leone rampante, la sigla G.F. riferita al nome dello speziale e la scritta “in castelo durate p mastro simono a di vinte 1562”. La data coincidente con quella della presenza di Andrea Boeri nella stessa officina dove operava il decoratore Simone da Colonnello, lascia pensare che egli stesso potrebbe essersi occupato degli acquisti dati gli stretti rapporti d’amicizia che lo legavano ai Fulco. Che questi ricchi speziali consociati nella maestranza di Sant’Andrea fossero particolarmente interessati alle forniture durantine si trova testimonianza nell’atto dopo più di un trentennio, stipulato con il mercante Cesare Candia il quale nel 1605 si impegnava di fare allestire per la loro spezieria, a Cateldurante, una dozzina

di vasi “fatti a piro” (balaustro) per rinnovare nello stesso stile il loro corredo16. Due di questi vasi da mostra si trovano citati nell’inventario della loro spezieria redatto nel 1626 alla morte del fratello Mario: “n° 2 balli di castello fatti a piro grandi”, cui è riservata dagli addetti alla stima l’invidiabile valore di un’oncia e 28 tarì. Non c’è dubbio che si tratta delle realizzazioni piriformi della fornitura candiana delle quali conosciamo le misure espresse nella polizza di commissione: “di tundo et de larghicza palmi tri (circonferenza max. cm 77, 25) et de alticza palmo uno et un quarto (cm 32,18 ca.)”. A rendere concreto il dato archivistico intervengono le relazioni con un reperto di collezione privata pubblicato nel catalogo di una Mostra allestita nel Palazzo Ducale di Urbania nel 1982: la sua forma a balaustro, la presenza del leone rampante affiancato dalle iniziali G.F. e soprattutto le misure coincidono perfettamente con quelle dei vasi ordinati dal Fulco al mercante Candia (fig. 2).

Nuova attenzione merita la spezieria palermitana di Giovanni Garillo17 che nel 1587 acquistava numerose maioliche dallo stesso Candia sul cui ruolo occorre di necessità a questo punto soffermarsi essendo egli considerato per tradizione detentore dell’emblema dipinto in 23 vasi del corredo allestito nel 1580 da Antonio Patanazzi, confluito nel 1628 nella spezieria del Sacramento di Roccavaldina18. Giuliana Gardelli, cui si devono gli studi su alcuni dei documenti citati, nel tentativo di rivelare i misteri della famosa spezieria siciliana ipotizza che nel suo corredo siano confluite due diverse forniture vascolari non contemporanee, ma con lo stesso emblema di Candia: una quella di cui fanno parte i vasi che recano il suo nome, l’altra quella cui appartiene l’opera firmata dal maestro Patanazzi19. Restando tuttavia non chiarito il ruolo di Candia e l’appartenenza dell’emblema, altra ipotesi, forse più convincente, è quella di considerare Candia come semplice intermediario dell’intera unica fornitura e contestarne di conseguenza l’appartenenza dello stemma. Infatti, se nel 1580 egli si trova per acquisti di maioliche a Casteldurante, nel 1587 è a Palermo per vendere vasi a Garillo e nel 1605, ancora nella città, s’impegna con i Fulco per nuove acquisizioni durantine, riesce difficile assegnargli l’attività di speziale. Se così è, occorre allora verificare a chi appartenga l’emblema dipinto sui vasi di Roccavaldina di chiara matrice apotecaria. Se egli, secondo i documenti citati, è impegnato nel commercio delle maioliche sembra logica deduzione affermare che l’emblema dipinto sui vasi non appartenga a lui, ma – com’era strettamente d’uso – alla bottega messinese cui egli, da mercante, fece allestire il corredo. La scritta “Cesaro Candia” soltanto in 23 dei 107 con emblema della fornitura Patanazzi, secondo la ricognizione fatta dal Liverani20, potrebbe trovare accettabile giustificazione se considerata come attestazione pubblicitaria, esaltazione del ruolo d’intermediario da lui avuto nella straordinaria fornitura, singolare per qualità e numero di elementi di cui soltanto una parte si trova a Roccavaldina esistendo almeno una decina di opere extravaganti nei musei o comparse sul mercato antiquario21, probabili esemplari facenti parte del numero di quelli estorti dal Vicerè duca di Uzeta nel 169022. Altre questioni dirimenti riguardano la famosa bottega palermitana di Garillo all’insegna del coccodrillo ancora oggi individuabile sull’odierna via dei Coltellieri alla Vucciria. Nel 1590, in seguito alla sua morte, venne inventariato un corredo di quasi 1000 vasi, in parte di fabbriczione veneziana compresi i Balloni straordinari che vi si trovano annotati. Nel documento fa la sua prima comparsa la maiolica di Burgio rappresentata da 61 manufatti da assegnare alle officine dei maestri emigrati da Caltagirone23. Ma la nota da prendere in seria considerazione è la citazione di una trentina di maioliche di Trapani, formidabile luogo manifatturiero al quale viene negata ancora oggi la produzione cinquecentesca. Attira l’attenzione degli studi un’altra annotazione dell’inventario, quella relativa al “quadro di mursia con la immagine di N. S. Gesù Cristo quando fu calato di la cruci, vecchio”. Diversi indizi conducono ad identificare l’opera con una delle due targhe pervenute della fornace faentina di Francesco Mezzarisa detto Risino: una, con la firma del maestro, reca la data del 1544, l’altra, identica dal punto di vista pittorico, porta scritto nella parte posteriore “Ms (o Mg) Gioano Brame de Pallerma” in faencia 1546, anno coincidente con la presenza del mercante in quella città. La prima opera, già in collezione Torrearsa, è ora custodita nel Museo di Palazzo Abbatellis, l’altra con l’annotazione postergale si trova in collezione americana. È difficile immaginare che quest’ultima, identica a quella firmata dal Risino, possa essere stata dipinta, come è stato più volte affermato, dal commerciante improvvisatosi pittore di maioliche giacché quel titolo di “magnifico o “messer” (MF. o Ms. d’incerta lezione) che precede il nome di “Gioano Brame” nella nota corsiva lascia piuttosto pensare ad una vera e propria dedica dell’autore Mezzarisa al mercante di Pallerma (sic) nome scritto evidentemente da una persona che ignora la corretta denominazione della città.

In coincidenza con la crisi che attraversa la marineria genovese a partire dal 159024 scompaiono i contratti d’importazione, pur restando registrate negli inventari del ’600 le giacenze di maioliche di Faenza e Urbino, di Montefusco bianche e calabresi con medaglioni di tipo veneziano. Le maioliche delle fabbriche “straniere” che sopravviveranno negli scaffali delle spezierie sino alla fine del secolo, cedono ormai definitivamente il passo ai prodotti siciliani: le realizzazioni a decorazione bianca e blu con tocchi di giallo di Caltagirone cui si aggiungono le maioliche policrome di Sciacca, Palermo, Burgio e Collesano decorate con medaglioni e trofei che condividono la presenza nei corredi con alcune maioliche di Gerace calabra delle quali nel 1626 la sola spezieria di Mario Fulco possedeva 26 esemplari. Dalle ornamentazioni calabresi, secondo le osservazioni di Ragona, prenderebbero origine le maioliche calatine decorate a fiori, foglie e frutti che s’imporranno sul mercato isolano sino alla fine del Settecento. Inviterebbe a riflettere sull’autorevole affermazione il cilindro con l’emblema di Caltagirone firmato nel 1677 dal maestro Giuseppe Munda, prototipo delle decorazioni settecentesche, che sembra poco abbia a che vedere con le decorazioni calabresi tanto vicine alle veneziane da essere talvolta con esse confuse. Una prova della circolazione nel Mediterraneo delle maioliche apotecarie calabresi nel primo quarto del XVII secolo è offerta dalla loro incisiva presenza nell’Ospedale Grande di Messina dove, per la vicinanza alla maniera veneziana, furono probabilmente chiamate a sostituire le lagunari perdute, mentre il vasellame con lo stemma del Gran Maestro dell’Ordine Gerosolimitano Alof de Wignacourt in carica dal 1601 al 1622, custodito nel Museo dell’Ordine Gerosolimitano di La Valletta attesta l’espansione del commercio di Gerace sino a Malta. A supporto della lunga permanenza nelle spezierie siciliane delle opere importate interviene l’inventario della bottega di Ballarò di Nicolò Gervasi, console a Palermo della maestranza nel 1669, proprietario di una biblioteca di enormi dimensioni, autore di un famoso Antiidotarium Panormitanum Pharmaco Chymicum. Nell’elenco si contano circa 1000 vasi, la maggior parte “antichi” veneziani e faentini conviventi con le maioliche di Vietri e le produzioni locali mentre apre l’interesse a nuovi orizzonti mercantili la “cannatella fiandrina” che vi è nominata a testimonianza dei traffici che in seguito alla crisi genovese si erano stabiliti nel Mediterraneo e che non avevano più come punto d’appoggio la Sicilia e i Genovesi, ma l’isola di Malta25. Ulteriore conferma della lunga sopravvivenza forestiera si trova nell’aromateria Russo di Ciminna che ancora nel 1676 possedeva 84 maioliche di Faenza, tenute in gran conto per il loro valore “antiquariale”, insieme alle 87 di produzione palermitana e alle 59 di Sciacca26 che, per essere di più recente fabbricazione, non testimoniavano evidentemente il prestigio che lo speziale, da lunghi anni si era guadagnato. 

Prima di passare all’esame del commercio interno alla Sicilia, solo un breve cenno meritano gli spostamenti inversi dei prodotti figulini siciliani dal Duecento alla prima metà del ’400 cioè la diffusione delle protomaioliche nella Penisola, i bacini residui individuati nei prospetti delle chiese pisane, nel campanile della Chiesa di Santa Francesca Romana di Roma, nei frammenti degli scavi occasionali di Sardegna. le notizie sulle fiere dove circolavano realizzazioni palermitane, siracusane e calatine ingobbiate, graffite a rivestimento piombifero di cui è ampia documentazione materiale nei musei (fig. 3). A tal proposito assai interessanti si rivelano gli studi particolari di Antonino Ragona, di Franco D’Angelo e le ricerche degli archeologi, ma bisogna tenere in particolare considerazione per i luoghi d’origine di alcune opere pervenute l’indagine condotta con altri studiosi da Alfio Nicotra27. In Sicilia lo sviluppo stradale resterà per lungo tempo assai modesto per cui l’unica via per la consegna dei prodotti e lo spostamento delle maestranze era di necessità anche qui quella marittima del cabotaggio tanto è vero che Il mattonaro palermitano Nicola Sarzana ancora nel 1775, per assistere alla messa in opera di un pavimento istoriato nella cittadina di Caccamo, lontana una sessantina di chilometri dal capoluogo, dovrà raggiungere in barca Termini Imerese e poi, a dorso di mulo, il luogo di destinazione28. Noto è anche l’itinerario marittimo che seguivano i vasi di Caltagirone per le consegne isolane, propalati dall’approdo di Scoglitti (Vittoria). Nel trasporto le maioliche venivano poste dentro “casse di legno o botti con paglia”, come si legge in una lettera del 1690 in cui il Principe Giovanni Papè istruiva il suo sovrintendente di Roccavaldina sul modo di inviare a Palermo alcuni vasi della famosa farmacia pretesi dal rapace Viceré Francesco Paceco29.

È superfluo avvertire che per quanto riguarda il commercio interno esula dal nostro intento proporre un’ennesima rassegna della produzione siciliana, per porre invece l’accento sulla circolazione delle opere e dei maestri nel periodo di cui ci occupiamo. Caltagirone per antica tradizione ed esenzioni daziali, e Sciacca frequentata da navi e mercanti, soprattutto pisani, per la presenza del caricatoio del grano, sono i centri più attivi nel mercato isolano. Il butto del Castello Nuovo di Sciacca ha rivelato la presenza di numerosi frammenti riferibili alle importazioni spagnole e toscane tardomedievali insieme a una più corrente produzione locale30 prima che operassero, dalla seconda metà del XV secolo, più esperte maestranze locali. L’attività della famiglia Lo Sciuto è attestata dai reperti autografi del mastro Nicola il quale, a Palermo per affari nel 1471, acquistando un cavallo si impegnava di pagare in contanti metà del prezzo pattuito e l’altra metà con la fornitura di una certa quantità di “opera stagnata” della sua bottega. A proposito dei reperti da lui vistosamente firmati non è facile giustificare come sia pervenuto al Museo della Valletta l’albarello di stile spagnolo autografo (fig. 4), ma non sembra da escludere l’ipotesi di un precoce flusso d’esportazione saccense verso Malta non ostacolato dal monopolio mercantile genovese che sembra esser causa non secondaria dell’assenza di vasellame pregiato di Sciacca nelle spezierie siciliane dello stesso periodo. Vistosi nei documenti del XVI secolo appaiono invece i movimenti commerciali nell’ambito delle forniture pavimentali in cui la cittadina sembrava versata senza tema di ostacoli in una condizione molto favorevole per evidente difficoltà di farli arrivare dai mercanti dalle fabbriche continentali. Dell’attività più antica di Sciacca nella decorazione degli impiantiti e dei rivestimenti murali fanno fede, come è noto, i frammenti del pavimento della Chiesa di Santa Margherita di Sciacca firmati dai maestri Scoma e Francavilla nel 1496 e il pannello di San Calogero sul Monte Cronio (Sciacca) che nel 1545 si intestava il presbitero Francesco Lo Sciuto. Ben documentate sono le esportazioni di mattoni operate da quest’ultimo prete-maestro che nel 1512 inviava a Palermo via mare il pavimento decorato per la Cappella di San Giorgio dei Genovesi nel convento di San Francesco. Dai documenti si apprende pure che 1000 mattoni “lavorati di virdi, bianco e giallo a rosetti fatti a modo di quelli di Valenza” (fig. 5) nel 1582 allestivano i figuli Bertone e Ardizzone da inviare al Convento dell’Annunziata di Trapani. Fatto che però non costituisce motivo di negazione delle fabbriche di vasellame trapanesi nello stesso periodo. La specializzazione delle maestranze che ne motivava la vendita anche in aree fornite di officine, è attestata dalla notizia che nel 1584 arrivavano anche a Palermo 11.200 mattoni per rivestire la cuspide della Porta Nuova. Nel 1614 Giuseppe Bonachia (Majarata), autore dei famosi pannelli con le scene bibliche custodite nelI’Istituto d’Arte di Sciacca, invierà a Trapani i mattoni per rivestire il campanile del Convento dell’Annunziata pure essendo attiva nella città la fabbricazione di maiolica come si evince dal citato inventario Garillo. D’altronde la specializzazione di cui godevano le officine di Sciacca nelle decorazioni pavimentali è provatadall’invio fino a Napoli, nel 1611, di un pavimento per un importante palazzo nobiliare. Di contro Il varco alla diffusione vascolare si aprirà soltanto nell’ultimo quarto del XVI secolo come testimonia un atto palermitano del 1589 in cui si trovanofinalmente elencate bocce con i coperchi e bricchi versatoi di Sciacca. Le forniture policrome con le decorazioni a trofei e medaglioni emergeranno più consistenti in un documento del 1599 anno in cui Silvestre Lo Bue vende borniame al commerciante Tommaso Agati; Vito e Leonardo Lo Bue in società con Giuseppe Bonachia, forniranno nel 1606 un intero corredo di maioliche decorate a trofei con santi nei medaglioni ad un aromatario di Agrigento; destineranno nel 1612 altri “vasi trofeati e figurati di manu mastra” allo speziale Cremona di Salemi31. Lo stile faentino, come si evince anche dai reperti datati si afferma nel primo quarto del ’600 nell’officina dei fratelli Lo Bue e si estenderà sino alla fine del secolo. La conferma degli itinerari marittimi adottati anche da Sciacca nel trasporto delle maioliche è fornita da un atto del 1661 in cui Pietro, figlio di Stefano Daidone, affittava una nave per trasportare maioliche a Palermo.

Per quanto riguarda le migrazioni delle maestranze, a parte la notizia del figulo ligure Bergantino individuato a Caltagirone dal Ragona, ma che non ha avuto conferme e seguito di studi, è registrato nel 1583 il trasferimento da Caltagirone del citato maestro calatino Stefano Daidone a Sciacca il quale attraverso i frequenti contatti con Palermo prenderà familiarità con la decorazione a trofei attraverso i prodotti faentini importati dagli speziali nel corso del secolo XVI. Intorno al 1589 una vera e propria colonia di ceramisti calatini si trasferirà a Burgio, undici maestri di cui il Ragona ha fornito i nomi32. È noto che i nuovi arrivati, anche se per breve tempo, continuarono a fabbricare maioliche nello stile calatino di derivazione ligure e napoletana, finiranno per adattarsi presto allo stile faentino suggerito dal compaesano Daidone, battistrada della migrazione.

Per quanto riguarda il commercio di Caltagirone, poche, come si è visto, sono le maioliche fornite alle spezierie nel ’500. Solo giare bianche e piccoli piatti sono annotati nel corredo di una spezieria palermitana del 155033. Per avere un’idea delle proporzioni numeriche della loro incidenza intorno alla metà del secolo XVI basta leggere l’inventario del citato Vincenzo De Marino che nel 1558 possedeva soltanto 6 fiasche delle fornaci calatine. Pur valicando i limiti della nostra indagine, occorre sottolineare che consistente sarà la loro diffusione nel ’700 e significative le esportazioni a Malta nel 1714 ad opera dell’officina Branciforti essendo console del Sacro Ordine Gerosolimitano Roman Perellos Roccaful34. Completerà gli acquisti calatini il console Manoel de Villena, rivolgendosi all’officina di Giacomo Dragotta secondo l’atto da lui stipulato nel 1728 a Malta35. L’assenza di maioliche palermitane nelle spezierie del ’500 evidenzia la mancanza di officine specializzate nella fabbricazione di vasellame. Ancora nel 1585, con evidente ritardo rispetto allo stile rinascimentale, il figulo di origine genovese Giovan Battista Sirello chiedeva al senato palermitano di poter fabbricare “mursia azzolo e bianca fine” nella bottega alla Vitrera. È in questa bottega, situata nel quartiere della Kalsa, che nel 1587 il maestro potrà invece allestire i mattoni, “una metà bianchi e l’altra azzolo” per pavimentare la loggetta della Porta Nuova36. È ulteriore prova degli ostacoli genovesi alle officine locali che soltanto nei primi anni del XVII secolo, sulle importazioni vascolari avranno il sopravvento i prodotti palermitani intestati ai fratelli nasitani che daranno vita ad un’abbondante produzione incontrastata e persistente nell’area occidentale dell’Isola sino alla metà del secolo nella continuità produttiva animata da Paolo Lazzaro nella fornace ereditata dal suocero Francesco Oliva. Ormai in atto la migrazione delle maestrane alla ricerca di vivaci mercati, ad animare lo stazzone di Collesano intorno agli anni Sessanta del ’600 arrivano Giovanni Saldo da Polizzi di cui sono pervenute diverse opere autografe datate e, poco più tardi, da Palermo Filippo Rizzuto37. Per quanto riguarda il fenomeno relativo alle contaminazioni stilistiche, di cui si è occupato anche Ragona38 dovute alle migrazioni delle maestranze è questione ancora non del tutto chiarita e scarsamente discussa la stretta parentela esistente tra i prodotti di Trapani e quelli di Napoli e Vietri39. A Trapani tra la fine del ’500 e i primi anni del ’600 risulta attivo il maestro Paolo La Via, firmatario di un orcio di spezieria conventuale francescana, (fig. 6) che anticipa lo stile delle maioliche decorate con i medaglioni incorniciati dalla corona cosiddetta robbiana, straripanti nell’ultimo quarto del secolo XVII in Sicilia come accade nella spezieria palermitana di Paolo Pecoraro del 1689. Ma se si tiene conto, come abbiamo notato, della trentina di vasi trapanesi elencati nell’inventario Garillo redatto nel 159040 non è difficile pensare a produzioni più antiche. D’altronde negli Statuti dei figuli della città redatti nel 1645 si afferma che da molti anni essi avevano operato nel settore delle maioliche senza disciplina di regole statutarie41.

Conclusioni

Nel tentativo di stabilire le rotte mediterranee seguite dalle maioliche verso la Sicilia e gli spostamenti all’interno della stessa, In estrema sintesi, sembra possibile affermare che, dopo le antiche produzioni locali del XIII e XIV secolo, nella seconda metà del ’400 e nei primi anni del ’500 il vasellame di pregio proviene dalla Spagna per imposizione commerciale della nazione dominante; le meditate e non passive acquisizioni rinascimentali arrivano in Sicilia dalle fabbriche peninsulari dalla prima metà del ’500 e si protraggono sino alla fine del secolo. Con la crisi dei commerci mediterranei, tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, riprenderanno le antiche produzioni locali, destinate quasi esclusivamente alle spezierie per motivi che aprirebbero un’altra serie di considerazioni sulla committenza privata e sulla rarità dei reperti di loro pertinenza che limita gli studi sulla maiolica siciliana quasi esclusivamente al settore apotecario.

Abbreviazioni bibliografiche

Aiello 2020 = F. Aiello, Gli acquisti per la farmacia del Monastero dei Benedettini di Catania, in ASSO, anno IV, n. 1, 2020.

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Banche e banchieri in Sicilia 1992 = Banche e banchieri in Sicilia, Palermo.

Caminneci 2012 = V. Caminneci, “... ne aliquis inmundicias perluciat”, lo scavo del butto del Castello Nuovo di Sciacca, in Archeologia postmedievale, 16, 2012-2014.

Cancila 2001 = R. Cancila, Corsa e pirateria nella Sicilia della prima metà dell’era moderna, in Quaderni storici, 2001.

Daidone 1992 = R. Daidone, Maiolicari trapanesi del XVI e XVII secolo e gli Statuti del 1645, in Atti Congresso ISVIME, Palermo.

Daidone 1998 = R. Daidone, La spezieria di Joannes Aloisius Garillo, in Faenza, LXXXIV, N° 4-6 1998. 

Daidone 2003 = R. Daidone, Le importazioni palermitane di Cesare Candia e un vaso di Urbino col sacrificio di Isacco, in CeramicAntica, anno XIII, n. 4 (136), aprile 2003, pp. 52-59.


Daidone 2004 = R. Daidone, I vasi della Farmacia di Roccavaldina e un viceré collezionista, in CeramicAntica, anno XIV, n. 9 (152), ottobre 2004, pp. 21-29.

Daidone 2005 = R. Daidone, La ceramica siciliana, Palermo.

Farruggio 2020 = A. Farruggio, I ritratti degli uomini illustri negli albarelli siciliani cinquecenteschi, in ASSO, anno IV, n. 1, 2020.

Gardelli 1987 = G. Gardelli, Maioliche rinascimentali dello Stato di Urbino, Urbino.

Governale 1986 = A. Governale, Recto Verso La maiolica Siciliana, secoli XVI e XVII Maestri botteghe influenze, Palermo.

Liverani 1996 = G. Liverani, Maioliche della farmacia di Roccavaldina, in Tesori di Roccavaldina, Roccavaldina. 

Mafrici 1995 = M. Mafrici, Mezzogiorno e pirateria nell’Età moderna (secc. XVI-XVIII), Napoli. Nicotra et al. 2020 = A. Nicotra – V. Del campo – C.Z. Raimondo – O. Vigo, Il Piatto di Sicilia, in ASSOanno IV, n. 1 2020.

Ragona 1986 = A. Ragona, La maiolica siciliana dalle origini all’Ottocento, Palermo 1986.

Ragona 1992 = A. Ragona, Influssi liguri nella ceramica caltagironese nei secoli XVI, XVII e XVIII, in Atti del XXV Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola.

Ragona – Larinà – Ventura Charles 2001 = A. Ragona – G. Larinà – S. Ventura Charles, Antiche maioliche siciliane a Malta, Catalogo della mostra, Caltagirone.

Tortolani 2016 = G. Tortolani, La ceramica a Vietri e nel salernitano dal VI al XIX secolo, Faenza.

Trasselli 1980 = C. Trasselli, I rapporti tra Genova e la Sicilia dai Normanni al 900, in Genova e i Genovesi a Palermo, Atti delle manifestazioni culturali tenutesi a Genova (13 dicembre 1978 - 13 gennaio 1979), Genova.










mercoledì 3 novembre 2021

L’AMORE DI ANGELICA E MEDORO IN DUE VASSOI DI TERRAGLIA



Di forma circolare, il vassoio palermitano è interessato da un’ampia scena dipinta in monocromia con la rappresentazione dell’amore di Angelica e Medoro colti nell’atto di incidere i loro nomi nel tronco di un albero. 

Il tema cantato dall’Ariosto nell’Orlando Furioso (canto XIX, ottava 36) è risolto in chiave realistica inserito com’è in un paesaggio minutamente descritto con alberi, case e montagne sullo sfondo che alla scena assicurano profondità di campo.

Due sono i modelli cartacei del soggetto ispiratore: le incisioni riprese entrambe da un dipinto di Teodoro Matteini (1754-1831). L’una del napoletano Raffaello Morghen (1758-1833), l’altra di Giovanni Folo (1764-1863) che è custodita anche a Napoli nella collezione di stampe della Certosa di San Martino. 

Alla stessa fonte iconografica attinge il vassoio ovale della Fabbrica Del Vecchio di Napoli realizzato anch’esso nel primo Ottocento, probabilmente dopo l’opera dell’Opificio palermitano di cui conosciamo la data di chiusura avvenuta in seguito alla morte del fondatore nel 1819.

Mentre la realizzazione dell’Opificio del Barone Malvica si attiene fedelmente alla fonte iconografica anche dal punto di vista coloristico, il vassoio napoletano punta su una squillante policromia e adotta alcune varianti di non poco rilievo: la presenza della scritta sul tronco dell’albero ripetuta sulla base in cui siedono i due amanti appena percepibile nelle due incisioni; l’enfatizzazione della fiaccola che agita Cupido dietro l’albero e, ancor più evidente, l’allungamento della pianta fiorita in primo piano che arriva quasi a toccare le braccia dei due personaggi. A indicare il discostamento dal modello nella rappresentazione partenopea della scena, la vegetazione non sembra tenere in conto la fonte. 

L’esuberanza stilistica che caratterizza il vassoio napoletano contempla anche una ricca minuta decorazione della tesa affidata a tre registri concentrici di ricercata eleganza. L’opera palermitana ricorre invece qui al traforo e ad una più semplice decorazione arricchita dalle dorature.

La fedele esecuzione del vassoio palermitano, leggermente più piccolo dell’altro, con ragionata sicurezza è attribuibile allo stesso direttore della Fabbrica della Rocca, Giuseppe Sebastiani, “professore di scultura, stamperia, modello e pittura” al servizio del barone sin dal 1801. Il vassoio napoletano è uscito invece dalla fornace della Fabbrica Del Vecchio come indica la marca FDV e lettera N incussa nel verso, ma non attribuibile in particolare ad uno dei maestri decoratori della stessa famiglia.

Al di là di ogni giudizio comparativo di natura artistica, desta particolare interesse l’aspetto relativo agli stretti rapporti culturali che legavano i due poli del Regno sotto l’egida di Sua Maestà Ferdinando di Borbone che le concomitanti opere testimoniano, la rivisitazione del tema amoroso della poesia rinascimentale nell’Ottocento romantico mediato dalle opere pittoriche, in particolare dalle stampe in rapida circolazione nell’Italia preunitaria. L’acquaforte ispiratrice di Raffaello Morghen fu eseguita (a Firenze o a Roma) intorno al 1795, quella diGiovanni Folo, nato a Bassano del Grappa, ma operante a Roma, nel marzo del 1801. Esse sono tratte, come si è detto, dallo stesso dipinto che il pittore Matteini aveva realizzato in tela a godimento privato del signor F.A. Hervey, conte di Bristol. 

La rappresentazione del soggetto erotico che poteva suscitare scandalo nella diffusa mentalità codina dell’Ottocento per le nude bellezze in primo piano dell’ammaliante Angelica, destinata, nelle stampe, forse a delizia “per soli uomini”, non impedisce alle due fabbriche meridionali di farne oggetto di ricercata aperta fruizione nei salotti di una spigliata borghesia parteno-palermitana divertita dai pettegolezzi sui tradimenti amorosi frequenti nella stessa casa regnante e adusa alla libertà dei costumi degli ospiti stranieri, lord e lady inglesi, favorita dal caldo clima mediterraneo, confortata dalle immagini erotiche svelate dagli scavi di Pompei. Nelle riunioni salottiere del primo Ottocento qualcuno, pensando ai versi del Meli, non avrà fatto a meno di ammirare, tra una chicchera di caffè o un bicchierino di rosolio offerti dalla padrona di casa, il provocante profilo di Angelica che è il fulcro malizioso della scena dei due vassoi.

Considerando il diffuso amore per l’erotico tutto meridionale lontano dalla volgarità, d’antica tradizione culturale, capace di rendere libere e liete le adunanze, non è una forzatura interpretativa pensare che rientri in questa caratteristica del costume il fatto che il Gattopardo narrando le vicende siciliane del secolo si apra con le nereidi dipinte nel pavimento di maiolica della villa nobiliare che corrono all’abbraccio e al bacio. E non è un caso che, nell’ampia possibilità di scelta offerta dalle favole classiche, il Palazzo sant’Elia a Palermo, nel secondo Settecento scegliesse per il pavimento di maiolica del suo salone la scena di Pan che spia le nude ninfe al bagno. Non sorprende leggere quindi nei documenti dell’Archivio di Stato che una signora dell’aristocrazia palermitana trascinava il marito davanti al notaio perché si mettesse nero su bianco la sua disponibilità a seguirlo nella residenza di campagna soltanto a patto che si facesse ritorno in città all’apertura delle danze nel Teatro di Santa Cecilia che un marchingegno consentiva, abbassandone il palcoscenico, di trasformarlo in una affollata sala da ballo. D’altronde più o meno nello stesso periodo il viceré di Sicilia Marc’Antonio Colonna, pur intestando la porta della città alla moglie Felice, non si peritava di fare eseguire una statua di sirena in bronzo con le fattezze della sua amante, Eufrosina Corbera, da porre sulla fontana lungo la passeggiata della marina dove ogni cocchiere, per discrezione, era invitato, di sera, a spegnere i lumi della carrozza come osservavano stupiti di tanto libertinaggio algidi viaggiatori stranieri. Né si pensi che al carattere mediterraneo non appartenga la Calabria, a torto considerata, tra Sicilia e Campania, una specie d’intermezzo del Regno, se in un diffuso detto antico esprimeva il suo inno alla gioia di vivere esclamando senza eufemismi di sorta, “Viva lu munnu, lu culu e lu cunnu”!

Partire dalla descrizione di due vassoi di maiolica per adire ad una seppur breve e incompleta considerazione del carattere e dei costumi di un popolo è forse un’operazione assai rischiosa e discutibile, ma questo credo debba essere il tentativo di chi, uscendo dalla generica rappresentazione strettamente legata alla materia, consideri i reperti, seppur recenti, come una testimonianza, tassello di un ampio mosaico, che aiuti a meglio comprendere il passato. 



a) Vassoio rotondo, diam. cm. 34

Galleria Regionale della Sicilia, Palermo, inv. 6778

Palermo, primo o secondo lustro del XIX sec.

 

b) Vassoio ovale, diam. cm. 36,8/28,8

Museo Duca di Martina, Napoli

Napoli, primo quarto del XIX sec.

Marca “FDV con lettera N” incussa nel verso

 




Teodoro Matteini (1754-1831) - Angelica e Medoro



a) Raffaello Morghen (1758-1833), Angelica e Medoro acquaforte

 

b) Giovanni Folo (1764-1863), Angelica e Medoro acquaforte



 

lunedì 5 luglio 2021

I PAVIMENTI “A TUTTA CACCIA” DEL MONASTERO DI SANTA CHIARA

 La storia della maiolica, che tra le arti cosiddette minori ha riconosciuta sussidiarietà testimoniale e privilegio di coniugare artisticamente forma e pittura d’inossidabili colori, è disciplina che richiede, come le altre, attività di ricognizione e ricerca d’archivio. Nei documenti notarili, inventari quasi sempre di antiche spezierie, il vasellame è tuttavia annotato soltanto con l’indicazione della forma e del luogo di fabbricazione. Ancor più stringate sono le note relative ai pavimenti di maiolica. Assenti del tutto sui contenuti, anche quando si tratta di opere di pregio, scene e paesaggi “a tutta caccia”, frequenti dal Quattrocento al Settecento nei palazzi nobiliari, chiese e conventi siciliani. Trattandosi di oggetti d’uso a cui la storia dell’arte dedica crescente attenzione e interesse, conoscere luogo di produzione e cronologia è un’esigenza quasi sempre difficile da determinare con certezza, tanto che pareri, controversie e sottili disquisizioni nell’ambito degli studiosi della materia sono più frequenti di quanto si possa immaginare. E’ dunque rara, fortunata congiuntura capace di suscitare una certa soddisfazione, trovare, per dirla col Ragona, un documento e un monumento palermitano ancora esistente, l’uno e l’altro combacianti e inediti. 

Si tratta di una testimonianza del XVII secolo, emersa dall’Archivio di Stato palermitano, e di due pavimenti del Monastero di Santa Chiara nel quartiere dell’Albergheria scampati a varie vicissitudini compreso il terremoto che nel 1726 produsse gravi danni alle strutture dell’edificio. Sfuggiti, per sconosciuti motivi, all’indagine degli studi più accreditati e, mea culpa, erroneamente attribuiti nel 1997, nel Catalogo della Mostra Terzo Fuoco a Palermo, al mattonaro Nicola Sarzana che nel 1776 si occuperà invece del pavimento del refettorio dello stesso edificio. Di un pavimento maiolicato del tardo Settecento, a complicare le cose, godeva anche la Chiesa del Monastero, sostituito col marmo negli anni Cinquanta del secolo scorso, di cui resta un lacerto dietro l’altare maggiore. 

I pavimenti del dormitorio delle Clarisse, esistenti in due delle quattro celle– oggi, ad evitarne il crollo, puntellate dal piano sottostante- restituiscono solo in parte l’aspetto originario per l’usura che svela in diverse zone il rosso ferroso dell’argilla palermitana. 

Nelle due opere, articolate cornici spugnate di verde e contornate di giallo si intersecano con altre più sottili di colore azzurro e inquadrano disegni a graticcio, stilizzate cornucopie di frutta e fiori alla moda, paesaggi in monocromia. 

Il tema centrale della caccia, che caratterizza i commessi, ha diversa impostazione scenografica nei due pavimenti. In entrambi Il cacciatore a cavallo e i cani inseguono un cerbiatto, conigli fuori pericolo tranquillamente brucano l’erba, canestri di paglia intrecciata ricolmi di frutta ricordano le nature morte nelle tele del periodo. Paesaggi, disegnati in monocromia azzurra di ascendenza ligure negli angoli; diverse sono le cornici terminali che, escluse dal calpestio, corrono intatte lungo i muri delle due stanze a delimitare con incisiva eleganza gli impiantiti: un festone di foglie verdi con raccordi e nastri gialli -ricordo di antiche insistite robbiane- nel primo; grandi foglie ricorrenti azzurre e verdi nell’altro. 

In una delle due opere il cacciatore sul cavallo morello al galoppo contro vento, la spada pronta a colpire, si affaccia improvvisamente sulla scena dominata da un grande albero cui si dirige ad ali spiegate un uccello variopinto. Due cani ansanti sono vicini alla preda, ma l’agile cervo sembra irraggiungibile e sta per mettersi in salvo nell’intrigo degli alberi e le macchie del folto. Una sapiente dinamica scena osservata dall’aperta finestra della cornice azzurra, un’istantanea del dramma in cui i protagonisti improvvisamente appaiono e velocemente si sottraggono alla vista come in uno di quei giochi ad effetto in cui il secolo della meraviglia si provava smanioso di allusioni allegoriche che, per suggerita ipotesi del cervo come simbolo e motivo ricorrente nell’iconografia cristiana, in queste opere si possono facilmente immaginare.

Osservata da lontano, nella scena del secondo pavimento, la cerva, inseguita dal cacciatore sul cavallo bianco ha movenze eleganti di antiche pitture, aspetto dorato d’acquamanile medievale. Un albero inarcato dal vento, un uccello pigro sul ramo. E azzurre montagne all’orizzonte. La bestia innocente sfugge anche qui illesa al feroce cacciatore nell’allegorico significato che pure questa scena sottende.

 Merita qualche puntualizzazione la fornitura, affidata all’officina Di Leo, corredata da concomitanti notizie archivistiche relative ad altrettante testimonianze materiali.  

Aveva da poco compiuto diciotto anni Antonino Di Leo quando il 3 aprile del 1628 sposava Rosana, di dodici, rimasta orfana del padre Giuseppe, figlio del defunto Antonino Oliva proprietario della prestigiosa bottega aperta a Palermo alla fine del ‘500 nella strata delli stazzoni dove ci è la immagine di San Giuseppe.  Uno “stazzone” attivo nelle forniture pubbliche e private di terrecotte, pavimenti istoriati e vasellame maiolicato per le spezierie siciliane ormai non più legate alle importazioni vascolari operate, se non imposte, dai mercanti genovesi nel corso del XVI secolo. Egli, per i diritti ereditari della moglie, diventava socio del mastro nasitano Paolo Lazzaro, che aveva sposato Isabella, figlia del vecchio proprietario. Alla società costituita non mancavano le commesse, anche di mattoni smaltati modulari alla moda come quelli, “a mustazzola verde bianco e nero”, simili agli esemplari allestiti per la Badìa di Montevergini, che nel 1633 furono inviati nel lontano paese d’Isnello.

Morto nel 1638 il socio nasitano, Antonino, ormai unico conduttore dell’impresa, impegnato nella fornitura di pavimenti dipinti per il Palazzo Reale, apprestava nel 1657 centinaia di mattonelle da censo con l’immagine dell’anima purgante per l’Unione Miseremini della Chiesa di San Matteo del Cassaro di cui sopravvive -altra coincidenza - qualche esemplare in collezione privata e nel Museo Diocesano di Palermo. Nel 1669, in concorrenza con l’officina Cosentino, che si aggiudicava la copertura della guglia, Antonino vinceva la gara d’appalto indetta dal Senato per la fornitura del pavimento della stanza sulla Porta Nuova -disegno dell’architetto Gaspare Guercio- ancora quella in cui erano avvenuti gli incontri furtivi tra il viceré Colonna ed Eufrosina Corbera. Sono soltanto alcune delle numerose forniture di pavimenti smaltati che attestano il prestigio di cui godeva la bottega palermitana in Sicilia nella seconda metà del Seicento e che giustificano, secondo l’atto notarile del 31 ottobre 1684, la scelta del Monastero di Santa Chiara per la realizzazione dei pavimenti ricchi di particolari disegnati dall’ Ingegnero Paolo Amato (1634- 1714) impegnato dal 1678 nei restauri del convento, o meglio, da lui con ogni probabilità creati in carta, come solitamente facevano gli architetti -non alieni dall’arte della pittura- per gli edifici in allestimento a loro affidati, come testimoniano i progetti firmati nel Settecento da Andrea Gigante, custoditi nella Collezione di stampe del Museo di Palazzo Abbatellis.

Dopo le vicissitudini che nel corso dei secoli hanno sconvolto le

antiche costruzioni della città, risparmiati dalle bombe che nel secondo conflitto mondiale colpirono il Monastero distruggendone parzialmente la Chiesa, i due pavimenti di Santa Chiara costituiscono un raro esempio di commessi palermitani dipinti del XVII secolo. Si tratta di 3.680 mattoni di 18 centimetri di lato, come si legge nell’atto notarile, “per servizio delli celli del nuovo dormitorio nuovamente fatto e per li passi delli detti celli”. (quattro camere e il relativo corridoio) “quali l’habbiano d’essiri bene magistribilmente fatti ben stagnati et pinti”. Due mesi di lavoro, a cominciare dal 31 ottobre, per una fornitura che il nostro maiolicaro doveva consegnare puntualmente ai muratori in diverse rate e completare immancabilmente entro il 24 dicembre di quell’anno. (2)

Un ricercato dono per le monache, che condividono con i fratelli francescani l’amore per la natura; innocente riservata bellezza di scenografiche finzioni, conforto e memoria delle perdute campagne, nostalgia delle allegre brigate nelle lunghe residenze estive con la famiglia. 

I patti prevedevano, fatta salva “la portatura” a carico del Monastero, il prezzo di once 1 e tarì 10 singolo centinario”.  Spesa complessiva di 42 once e 10 tarì netti che copriva fatica, cartoni e colori occorrenti alla complessa stesura pittorica nonché l’impegno d’assistere i muratori all’appatto dei mattoni nel complicato svolgimento del disegno.  

Per fornire alcuni elementi di paragone relativi al prezzo pagato dalla badessa del tempo -Lorenza Ventimiglia- è opportuno riferire che all’inizio del secolo il nasitano Geronimo Lazzaro, fratello di Paolo, aveva decorato i pavimenti di un “salone e camerone” del Palazzo Reale (non più esistenti) per 24 tarì il centinaio; nel 1630 un addetto, esperto di tornitura e smalti, veniva retribuito “quando fa maduni tarì 17 per ogni migliaro; quando mina stagno tarì 3 e grani 10; quartarami a grani 13 la testa. Lo stesso Antonino Di Leo aveva ricevuto per la citata fornitura d’Isnello 24 tarì ogni cento mattoni. Un curioso documento notarile, che mi piace allegare per certi riscontri d’attualità, informa che nel 1657 un certo Antonio Sardisco riceveva il salario di un’onza e 10 tarì l’anno dalla Compagnia di Gesù per non far fare sporchezze da picciotti, bottare mondizza, nè altre lordezze nel piano della Casa Professa et sempre mantenerlo limpido.

 Un’onza di Sicilia equivaleva a 30 tarì: un tarì a 20 grani; un grano a 6 denari.

Che l’esecutore di un’opera così ricca di coinvolgenti dettagli sia stato il titolare della bottega di cui notizia di pittura praticata non è giunta, appare poco probabile. Trovare l’esecutore materiale della pittura dei mattoni è impresa pressoché impossibile dal momento che generalmente i documenti non restituiscono alcun riferimento dei loro impegni, fatta eccezione per alcune figure di rilievo: Andrea Pantaleo che nei primi trent’anni del secolo XVII firma diverse maioliche pervenute, Filippo Passalacqua e pochi altri decoratori come Diego Di Leo, fratello del nostro, di cui è nota una boccia da spezieria autografa, scomparso, per quanto riferisce Alessandro Giuliana Alaimo, nel 1673. Ed è fenomeno singolare dal momento che abbondano invece le notizie archivistiche relative ai comuni manipolatori dell’argilla. Una risposta si potrebbe trovare nell’ipotesi che i pittori di mattoni lavorassero per diverse officine della città reclutati “alla bisogna” senza impegno notarile. 

Un intervento di restauro di cui l‘intero Monastero urgentemente necessita -sede oggi dei Salesiani che si occupano dei ragazzi del quartiere dell’Albergheria - potrebbe restituire alla storia dell’arte e del costume un monumento di notevole interesse di cui si conosce ormai il fornitore, il probabile ideatore e l’anno di fabbricazione. Ulteriori ritardi potrebbero destinare l’opera, attestazione non secondaria di valori culturali appartenenti al nostro passato, ad irrimediabile perdita nel desolante irresponsabile abbandono del centro storico.  

Per quanto riguarda il repertorio iconografico, occorre avvertire che, non essendo in grado per motivi di sicurezza poter restituire l’intera visione delle opere, si forniscono le immagini di diversi particolari di rilievo.

 

(1) A.S.P, Notaio Andrea Lo Cicero, Vol. 10974, f. 316)  

 

(2) 1684 (31 ottobre) Not. Salvatore Miraglia, Vol. 428, f. 391

Mastro Antonino Di Leo stazzonaro civis huius felicis urbis Panormi si obbliga e pelli matri sorori Lorenza Ventimiglia abbatissa del Ven. Monastero di Santa Chiara di questa città a tutte spese e attratto e magisterio de lo ditto Di Leo fare tutta quella quantità di maduni di valenzia che il detto ven. monastero haverà di bisogno per servizio delli celli del nuovo dormitorio nuovamente fatto e per li passi delli detti celli quali l’habbiano d’essiri bene magistribilmente fatti ben stagnati et pinti giusta la forma della mostra tiene detta reverenda abbatissa s’obbliga quelli detto Di Leo consignare de hoggi innanti et successivamente continuare per tutti li 24 di dicembre p.v. dell’anno presente 8a indizione innante posti in detto monasterio itache la portatura l’habbia di pagare il detto Ven. Monasterio di patto. Et hoc pro pretio ad rationem once 1 e tarì 10 singolo centinario. Detta abbatissa promette di solvere a detto Di Leo consignando solvendo. Con patto che essendoci ciascheduno di mala qualità rutto e mal stagnato in tal caso quelli possa rifiutare di patto. 

Testi Pietro Ventimiglia e Salvatore Aloysio Giuliana.





REPERTORIO ICONOGRAFICO



Scena caccia cella A

Scena caccia cella B


Scena caccia cella B (part.)

Cornici e tralicci

Cornici

Conigli e canestri


Scena caccia cella A (part.)

Tralicci e cornice terminale (part. cella A)

Tralicci e cornice terminale (part. cella B)